Afterhours + Giovanni Ferrario, 13 maggio 2008, Firenze, Saschall
Spesso mi capita di passare davanti a un muro non lontano da casa mia, una strada che finisce sul lungomare. Qualche anno fa, una mano quasi infantile (la "calligrafia", se si può usare questa parola per una scritta a spray, è da elementari) scrisse posso avere il tuo deserto?; in pochi capirono, e pochi capiscono tutt'oggi.
Decido di andare al Saschall, a vedere i milanesi che ammazzano il sabato, pochi giorni prima: per caso ascolto il nuovo disco e mi piace, a differenza del precedente, soprattutto nella versione inglese. Mi avevano disturbato anche i racconti di un Agnelli sempre più irascibile durante i concerti. Non amo la rockstar in senso classico, a meno che non sia davvero sopra le righe, e me ne tengo a distanza per non rimanere deluso, in un senso o nell'altro (troppo normale se è sopra le righe, troppo rompicazzo se appare perbene). Tralascio i soliti complimenti alla struttura e mi soffermo sull'affluenza: buona, non pieno ma ben riempito, trasversalità generazionale diffusa. Introduce Giovanni Ferrario, della serie e chi se lo incula, sia detto senza offesa alcuna.
Circa ore 22,00 si parte con Naufragio sull'isola del tesoro, pezzo di apertura anche del nuovo disco, primo degli innumerevoli riferimenti alla famiglia e soprattutto alla figlia da parte di un Agnelli pacificato. Il primo di molti (quasi tutti) pezzi del disco in promozione, inframezzati dal repertorio. La band è numerosa e diretta senza troppa presunzione da Manuel, che comunque rimane il leader. I pezzi del nuovo disco diventano più diretti e meno arrangiati (E' solo febbre, Pochi istanti nella lavatrice, Tema: la mia città per citarne solo alcuni), mentre i pezzi di repertorio acquistano a volte dimensioni di spessore importante (quando il concerto rischia la stagnazione, poco prima dei bis, il trittico Bye Bye Bombay, sempre coinvolgente, Non sono immaginario in una bella versione tirata, e Oppio, alzano la temperatura già alta). La band è coesa ed appare in forma, decisa a tagliare i fronzoli e ad arrivare dritta al punto. I suoni sono giusti, i volumi un po' troppo alti, ma la resa è efficace, rock, l'impatto è quello di un frontale, e va bene così. Dopo il trittico citato poco fa c'è Riprendere Berlino ad emozionare, per chi scrive non ha nulla da invidiare ai classici Afterhours del passato, mentre Voglio una pelle splendida è, come sempre in questo tour, suonata dopo una breve pausa in mezzo alla gente (nello specifico nella galleria del Saschall) e in acustico, e costringe Musa di nessuno tra, appunto, la pelle splendida e il Male di miele; nonostante ciò non sfigura.
Ancora una pausa, prima del trittico di chiusura, composto da For What It's Worth, una canzone dei Buffalo Springfield, un pezzo che fu colonna sonora della protesta americana anti-Vietnam (e che quindi può assumere determinati significati adesso), da Bungee Jumping e Quello che non c'è; mentre i milanesi acchitano le note dei Buffalo Springfield, decido di fare una cosa non usuale per me (anche se non è proprio la prima volta): andarmene prima della fine per evitare noiose code. Segno del tempo o quello che volete voi, fatto sta che gli Afterhours sono tornati e sono in piena forma. Malignando, potrei dire che sono riusciti ad incanalare nel modo giusto le influenze esterne ed estere, a ridurle nella misura del quanto basta per continuare a fare qualcosa di personale. Il disco nuovo, i Milanesi Ammazzano il Sabato è buono, la resa live altrettanto, e questo ci fa piacere: anche se non la facessero mai più dal vivo, potrò continuare a canticchiare Posso avere il tuo deserto? senza vergogna, dandogli un significato tutto mio e, chiaramente, una profondità.
Si sa.
La foto è di Fabrizio Pucci, dove vediamo degli Afterhours "d'epoca", ed è tratta da:
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