Il supermercato sbagliato
A Lilla Edet – una località un po’ fuori moda vicino alla costa occidentale della Svezia, dove ho abitato per tre anni con mia moglie Anita – le divisioni di classe correvano lungo la strada principale del paese. Sul lato più distante dal fiume c’era l’Ica, il negozio borghese; di fronte c’era la cooperativa Konsum, dove andavano a fare la spesa i proletari. Entrambi erano piccoli supermercati, ma al Konsum i corridoi tra gli scaffali erano più stretti e i cestini di plastica erano rossi anziché blu. I prodotti in vendita, generi alimentari e qualche articolo da ferramenta, erano gli stessi, ma di marche diverse a seconda del negozio. La zuppa di piselli secchi, per esempio, alla Konsum era venduta in una confezione blu e bianca, mentre all’Ica in una lattina con un’etichetta a colori vivaci. Il sapore, però, era identico. Probabilmente sono stato l’unico abitante di Lilla Edet a fare la spesa in entrambi i negozi. Da Konsum, tuttavia, non andavo spesso. A quei tempi, i parenti di Anita raccontavano un aneddoto su un uomo politico del posto che per la fretta era entrato nel supermercato sbagliato: aveva passato i dieci anni seguenti a scusarsi. Il posto in cui si faceva la spesa era legato al luogo dove si viveva, alle proprie convinzioni, alla scuola che si frequentava. Il partito socialdemocratico era una componente della struttura di potere, e insieme al sindacato formava l’Arbetarerörelsen, una sorta di grande associazione operaia, che andava ben oltre il lavoro e la politica. Si viveva in appartamenti costruiti dalla cooperativa, dove il canone d’affitto era deciso dagli inquilini. Sul posto di lavoro ci s’iscriveva al sindacato.
Finito di lavorare, si andava a fare la spesa alla cooperativa e si pagava con gli assegnidella banca della cooperativa. Poi, la sera, l’Arbetarerörelsen organizzava corsi su tutto: dalle lingue straniere all’artigianato. Si leggevano i giornali socialisti e si andava in vacanza nelle colonie operaie. Alla tv di stato nulla faceva sospettare che il mondo potesse essere diverso, e la tv commerciale non esisteva. Si viveva come salmoni d’allevamento: in un braccio di mare sconinato, ma rinchiusi in una gabbia invisibile. La società svedese era molto disciplinata e, almeno all’apparenza, non classista. C’era un forte senso della collettività, unito alla convinzione che tutti potessero arricchirsi grazie alla collaborazione e non all’egoismo. Non voglio certo sostenere che gli svedesi non fossero avidi o ambiziosi. Ma anche queste due caratteristiche venivano interpretate in senso collettivo. Una delle cose che rendevano così comune e così opprimente la solitudine era la sensazione che in fondo gli individui non esistessero.
Il paradiso riconquistato
Quando sono tornato in Svezia nel 2006, ho visitato Nödinge, un sobborgo di Göterborg dove Anita e io abbiamo abitato per due anni subito dopo il matrimonio. Ho lasciato la mia Saab tutta ammaccata con la targa inglese nello stesso parcheggio di cemento armato dove nel 1978 parcheggiavo la mia prima auto. A due passi c’era il caseggiato dove una sera ho visto una coppia che ballava un valzer nuda davanti a una finestra con le tende aperte. Ballavano molto bene.
Il giorno in cui sono tornato a Nödinge aveva appena inito di piovere, la giornata era asciutta e fresca e la luce nitida. Ho attraversato i cortili tra i palazzi, diretto verso la strada. Nel parco giochi c’erano dei bambini, e sono passato accanto a due ragazzi: una vestita in uno strano stile islamico-svedese – con un fazzoletto bianco in testa e una gonna che le arrivava al ginocchio – e l’altra in tuta, con molti chili di troppo, i capelli biondi legati e un piercing d’argento al labbro inferiore. Non parlava nessuno: in questo, nulla era cambiato. Uscendo dal complesso di palazzi
c’era un centro commerciale con insegne luminose, due grandi supermercati (nessuno dei quali era una cooperativa), un negozio di animali, una cartoleria, un fioraio e perino uno spaccio statale che vendeva alcolici. C’erano anche due banche e un caffè dove sono rimasto seduto in una calma confusa a mangiare un dolce. L’unico legame visibile tra quel benessere volgare e appariscente e la grigia Nödinge di un tempo erano i clienti: tre uomini seduti vicino alla vetrina con la malinconia tipica dei lavoratori in pensione. Erano vestiti con roba da poco: magliette grigie, vecchie camicie, jeans e scarpe da tennis malconce. In base agli standard svedesi, negli anni settanta Nödinge era un quartiere degradato. Ci abitava chi non poteva permettersi di vivere altrove. Eppure era arioso, si percepiva un certo benessere ed era visibilmente curato. Quando ho chiesto a quelli del caffè dove potevo trovare un collegamento a internet, mi hanno consigliato di andare alla nuova scuola: uno dei pochi edifici piacevoli della zona, con le sue linee curve e la sua forma insolita. All’interno ho trovato una biblioteca con soffitti altissimi e, al bancone, una
cordiale signora di mezza età, che mi ha proposto di fare una tessera. Mi sono ritrovato a balbettare in svedese, come se stessi rivivendo il modo in cui avevo imparato quella lingua. Ho spiegato alla bibliotecaria che anni prima avevo vissuto a Nödinge ed ero curioso di sapere come
era cambiato il quartiere. La bibliotecaria ha drizzato le orecchie. Davvero avevo vissuto lì? Lei ci aveva abitato verso la fine degli anni settanta, ma dopo una decina d’anni si era trasferita e non
sapeva bene cosa fosse successo da allora.
Il giorno in cui sono tornato a Nödinge aveva appena inito di piovere, la giornata era asciutta e fresca e la luce nitida. Ho attraversato i cortili tra i palazzi, diretto verso la strada. Nel parco giochi c’erano dei bambini, e sono passato accanto a due ragazzi: una vestita in uno strano stile islamico-svedese – con un fazzoletto bianco in testa e una gonna che le arrivava al ginocchio – e l’altra in tuta, con molti chili di troppo, i capelli biondi legati e un piercing d’argento al labbro inferiore. Non parlava nessuno: in questo, nulla era cambiato. Uscendo dal complesso di palazzi
c’era un centro commerciale con insegne luminose, due grandi supermercati (nessuno dei quali era una cooperativa), un negozio di animali, una cartoleria, un fioraio e perino uno spaccio statale che vendeva alcolici. C’erano anche due banche e un caffè dove sono rimasto seduto in una calma confusa a mangiare un dolce. L’unico legame visibile tra quel benessere volgare e appariscente e la grigia Nödinge di un tempo erano i clienti: tre uomini seduti vicino alla vetrina con la malinconia tipica dei lavoratori in pensione. Erano vestiti con roba da poco: magliette grigie, vecchie camicie, jeans e scarpe da tennis malconce. In base agli standard svedesi, negli anni settanta Nödinge era un quartiere degradato. Ci abitava chi non poteva permettersi di vivere altrove. Eppure era arioso, si percepiva un certo benessere ed era visibilmente curato. Quando ho chiesto a quelli del caffè dove potevo trovare un collegamento a internet, mi hanno consigliato di andare alla nuova scuola: uno dei pochi edifici piacevoli della zona, con le sue linee curve e la sua forma insolita. All’interno ho trovato una biblioteca con soffitti altissimi e, al bancone, una
cordiale signora di mezza età, che mi ha proposto di fare una tessera. Mi sono ritrovato a balbettare in svedese, come se stessi rivivendo il modo in cui avevo imparato quella lingua. Ho spiegato alla bibliotecaria che anni prima avevo vissuto a Nödinge ed ero curioso di sapere come
era cambiato il quartiere. La bibliotecaria ha drizzato le orecchie. Davvero avevo vissuto lì? Lei ci aveva abitato verso la fine degli anni settanta, ma dopo una decina d’anni si era trasferita e non
sapeva bene cosa fosse successo da allora.
continua
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