Nuvole in viaggio
Le ho detto che ricordavo vagamente di aver letto da qualche parte di alcuni scontri scoppiati proprio in quel quartiere tra una banda di gente del posto e degli immigrati. Ma lei non ne sapeva nulla. Sapeva solo che verso la metà degli anni novanta era stata avviata la riqualiicazione del quartiere, e che le cose da allora erano molto migliorate. “Qui negli anni ottanta c’era un sacco di gente che beveva e viveva di sussidi”, mi ha detto. “Adesso non ce n’è più. Anche perché oggi i ragazzi si riempiono di spinelli e pasticche, che danno meno nell’occhio”. Dall’altra parte della piazza un tempo c’erano delle panchine. Proprio lì, più di vent’anni fa, mi era capitato di ascoltare un comizio del 1 maggio, tenuto da Stig Malm, il capo del sindacato dei metalmeccanici. Per un istante ho avuto la sensazione di camminare in mezzo alle rovine di una cultura scomparsa. Stavo viaggiando verso nord senza una meta e avevo di nuovo bisogno di un
collegamento a internet per spedire un articolo. L’ho trovato in una pizzeria gestita da profughi curdi a Sälen, una località di montagna. Erano i primi di giugno e all’ora di pranzo faceva molto caldo: il termometro dell’auto segnava 36 gradi. Proseguendo dopo Sälen, lungo la valle del Ljöra ho incontrato un grande ostello della gioventù. Era un edificio luminoso e in quel paesaggio deserto dava un’impressione di calore. La casa più vicina si trovava a un chilometro di distanza, e per raggiungere i negozi ci voleva mezz’ora di auto. La sera mi sono sistemato sulla veranda a chiacchierare con Kjell Röngård, il proprietario dell’ostello. Kjell è un poliziotto in pensione. Era entrato in polizia nel 1963, a 19 anni, e, dopo aver fatto il commissario a Sälen, nel 2006 ha smesso di lavorare, potendo contare su una pensione dignitosa. Naturalmente, mi ha spiegato, aveva indagato su dei casi di omicidio, ma il grosso del suo tempo l’aveva dedicato ai due reati più pericolosi per la società. Tra il 1970 e il 1982 aveva fatto parte della squadra narcotici della contea e aveva cercato di combattere la diffusione della droga. Poi era passato a occuparsi dei cosiddetti reati economici, che in Svezia significano soprattutto evasione iscale. Anche qui
l’illegalità era aumentata a partire dagli anni settanta, man mano che si aprivano le frontiere economiche del paese e cresceva l’individualismo. Per alcuni dei delinquenti con cui aveva avuto a che fare, Röngård provava simpatia. È comprensibile – mi ha detto – che un falegname, costretto a dare al fisco più della metà dei suoi guadagni, cerchi di fare qualche lavoretto in nero.
Il guaio è che sono proprio questi comportamenti a rovinare la fiducia negli altri, il vero fondamento della società. Nella Svezia di qualche anno fa, all’interno delle comunità, tutti dipendevano da tutti: l’insegnante dal taglialegna, il pescatore dal cacciatore. La solidarietà era istintiva. “Ma con lo sviluppo economico, la mobilità sociale è aumentata. Oggi la gente si trasferisce a Stoccolma e non conosce più i suoi vicini. Nelle grandi città, i vincoli sociali stanno sparendo”. Ma i legami sociali di cui parla Röngård potevano essere anche vincoli molto
concreti. Ricordo ancora la sensazione che provavo quando vivevo a Lilla Edet: il cielo mi sembrava una pesante lastra di ferro che ci teneva tutti prigionieri. Eppure, è proprio quest’idea soffocante di collettività che è alla base della socialdemocrazia. L’anziano poliziotto lo sa bene: “Il controllo sociale è importante. Bisogna occuparsi gli uni degli altri, sia da bambini sia da adulti. Prenda una località piccola come questa: è fondamentale lavorare insieme”.
Quando Röngård lavorava nella polizia, sua moglie faceva l’assistente sociale. Dopo che sono andati in pensione hanno cominciato a occuparsi della beneficenza che la loro chiesa fa in Russia. Hanno visitato un ospizio di provincia dove vivono 35 anziani abbandonati, con un solo gabinetto.
È evidente che un simile inferno, mi ha detto, è il risultato di una società dove tutti i rapporti sono volontari e nessuno può essere costretto a fare qualcosa. Secondo Röngård, alla base delle leggi
che aveva passato la vita a far rispettare, in Svezia esistono delle norme non scritte: lo Jantelagen, una serie di regole di comportamento che proibiscono a chiunque di sentirsi superiore agli altri. Soltanto così può nascere un vero senso comunitario. “Io credo nell’integrazione”,
mi ha detto. “Sa, ho fatto parte del corpo di polizia civile dell’Onu e ho lavorato a Cipro. I
greco-ciprioti e i turco-ciprioti non considerano davvero gli altri degli esseri umani”.
C’è stato un attimo di silenzio. Le rondini volavano intorno alle nostre teste e in cielo, oltre le montagne, le nuvole erano di un colore tra il blu violaceo e il grigio, simile a quello di un guscio di madreperla. “Che privilegio vivere qui”, ha detto Röngård, “dopo tanti anni passati in città”.
C’è stato un attimo di silenzio. Le rondini volavano intorno alle nostre teste e in cielo, oltre le montagne, le nuvole erano di un colore tra il blu violaceo e il grigio, simile a quello di un guscio di madreperla. “Che privilegio vivere qui”, ha detto Röngård, “dopo tanti anni passati in città”.
L'autore
Andrew Brown è un giornalista britannico, columnist del Guardian. Alla Svezia ha dedicato il suo ultimo libro, Fishing in utopia: Sweden and the future that disappeared (2008). Ha un blog: www.thewormbook.com/elegans/hlog
Il reportage continua
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