No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080603

visti da dentro


Da Internazionale


RAVENNA
La sconfitta

della lingua
TAHAR LAMRI
Non so che ne pensa il professor Tullio De Mauro, ma a me sembra che la più grande sconfitta
delle ultime elezioni l’abbia subita la lingua. In questi vent’anni passati in Italia, man mano che imparavo e perfezionavo la conoscenza dell’italiano avevo l’impressione di assistere al suo declino. E il declino di una lingua è l’anticamera dell’imbarbarimento della politica. Per alcuni l’ultima campagna elettorale è stata pacata, mite e civile, per altri noiosa. Secondo me, invece, è stata essenzialmente una veglia funebre per la morte della lingua. Quando le parole non significano più nulla, non possono raggiungere chi ci ascolta: si infrangono contro le persone, senza tornare indietro per una seconda elaborazione o ridefinizione. I discorsi da bar hanno abbandonato i bar e si sono trasferiti in bocca all’esperto ovviologo di turno, che si limita a confermare quello che tutti pensano o, peggio, dicono. Due giorni dopo il mio arrivo in Italia,
mentre aspettavo l’autobus, un signore mi ha chiesto qualcosa. Dato che non parlavo ancora italiano, non ho potuto rispondere. Per nulla scoraggiato dal mio mutismo, il signore si è avvicinato, mi ha preso la mano e ha consultato il mio orologio, dandomi il più bel benvenuto che si possa dare a uno straniero: toccarlo. Qualche anno dopo una vicina, che aveva incontrato a casa mia un senegalese, ha detto: “Oggi ho visto un nero, ma talmente nero che aveva perfino le
pieghe del collo nere”. Era la prima volta che vedeva un nero, e con quella frase stava raccontando la sua storia di bracciante, abituata a vedere i contadini che si abbronzavano ma non nelle pieghe del collo. La mia vicina aveva le parole per raccontare se stessa e la diversità.
Vedeva che quel signore senegalese era intimamente diverso da lei, ma non le faceva paura, perché sapeva riconoscere quell’alterità. Un anno dopo, nel 1991, ho sentito l’allora presidente dell’Enimont, Raul Gardini, che affermava: “Io non sono un voltagabbana”. All’epoca, quando in Italia essere un voltagabbana era ancora una cosa grave, la televisione osava trasmettere
espressioni del genere. Ora sarebbero considerate sovversive. La conseguenza peggiore della sconfitta della lingua è quella che chiamerei orizzontalizzazione del conflitto: non c’è più un linguaggio legato alla rivendicazione dei diritti, quel dare del “tu” al potente di turno, padrone di casa o datore di lavoro che sia. C’è solo un senso di soffocamento provocato dal vicino, a
cui ci si rivolge con i sassi in bocca. Nel 1921 i braccianti di Mezzano, nel ravennate, si ritrovarono con alcuni milioni di guadagni da spendere. Avrebbero potuto comprarci da mangiare – la fame era tanta – o costruire delle case. Invece preferirono creare un teatro sociale: il luogo del linguaggio e delle parole. È questa l’Italia di cui sono perdutamente innamorato. Quella di oggi somiglia sempre di più a un altro paese.


TAHAR LAMRI è nato in Algeria nel 1958 e vive in Italia dal 1987. Autore di diversi spettacoli teatrali, ha scritto I sessanta nomi dell’amore (Traccediverse 2007).

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ale, somiglia abbestia a "Uzzo", ...non Trovi??

jumbolo ha detto...

yes!