No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20080602

la dolce vita degli islandesi 7



Seconda parte dell'articolo sulla crisi economica dell'Islanda, la prima è stata postata ieri.


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Una semplice lezione



L’Islanda è stata colpita perché ha contato sulla disponibilità del credito fino a quando i fondi non sono evaporati. Inoltre, il fatto stesso che il paese dipendesse tanto dai capitali stranieri ha reso gli investitori ancora più scettici. Nei mercati, infatti, la debolezza genera debolezza.
Come se non bastasse, le dificoltà hanno fatto del paese un potenziale bersaglio per gli speculatori che volevano affossare la sua valuta e provocare un assalto alle banche. Non è chiaro se sia in
atto un complotto internazionale contro il sistema di credito islandese simile a quello contro Hong Kong del 1998, ma è un’ipotesi plausibile. Con una popolazione di 300mila persone e una banca
centrale le cui riserve non superano i cinque miliardi di dollari, il paese è unbersaglio facile per i fondi speculativi. I problemi attuali dell’Islanda insegnano qualcosa sull’interdipendenza
dei mercati: i guai possono arrivare da qualsiasi parte. Se chi ha un mutuo a San Diego non riesce a pagare le rate, le conseguenze si fanno sentire fino a Reykjavik. Questo non significa che
l’Islanda sia una vittima innocente: ha speso e prestato troppo e lo ha fatto usando capitali stranieri, mettendo così il paese alla mercé degli investitori internazionali.
Tuttavia non è stata più avventata di molti altri paesi, specialmente degli Stati Uniti. È proprio questo che dobbiamo imparare dalla crisi islandese: nel panorama dell’economia globale, per giocatori diversi esistono regole diverse. Per sostenere la valuta nazionale e impedire la fuga dei capitali stranieri, la banca centrale islandese ha dovuto alzare il costo del denaro ino al 15 per
cento, una decisione che farà rallentare l’economia. Il dollaro, invece, anche se debole, è riuscito a evitare il crollo: la Federal Reserve ha scelto di abbassare i tassi e il congresso sta prendendo
in prestito 152 miliardi di dollari per far fronte ai rimborsi delle imposte sul reddito.
Il governo islandese è stato costretto a far soffrire i suoi cittadini, quello americano sta facendo di tutto per evitarlo. Se Reykjavik cercasse di emulare Washington, la sua valuta crollerebbe e
gli investitori stranieri prenderebbero il volo. Nonostante la nostra precaria situazione economica, paesi come Cina e Giappone continuano a investire centinaia di miliardi di dollari nei titoli americani. Non lo fanno per spirito di carità, ma perché il mercato statunitense è troppo importante per le loro economie. Il mondo non si può permettere di lasciar fallire gli Stati Uniti. Buon per noi. Ma la crisi in Islanda dovrebbe ricordarci che se non fosse per la Cina anche gli
Stati Uniti si troverebbero nella stessa situazione.



James Surowiecki è un giornalista del New Yorker. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (Fusi orari 2007). Altre column di Surowiecki sono su newyorker.com.




Foto tratta da qui

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