Fine di un ciclo continentale
L’America Latina continuerà a essere la regione con la crescita più bassa tra i paesi in via di sviluppo. Colpa della corruzione e delle divisioni sociali
UGO PIPITONE PER INTERNAZIONALE
Anche senza un brusco atterraggio, si sta chiudendo il ciclo di crescita mondiale degli ultimi cinque anni. Com’è andata in America Latina? Cosa bisogna aspettarsi nell’immediato futuro?
Tra il 2003 e il 2007 la regione è cresciuta a una media del 5 per cento all’anno. Questo tasso è quasi il doppio di quello delle economie sviluppate (2,7 per cento), ma è comunque inferiore
al resto dei paesi in via di sviluppo. E le previsioni al ribasso del Fondo monetario internazionale per il 2008 confermano che il Sudamerica continuerà a essere la regione con la crescita più bassa.
Tra il 2003 e il 2007 la regione è cresciuta a una media del 5 per cento all’anno. Questo tasso è quasi il doppio di quello delle economie sviluppate (2,7 per cento), ma è comunque inferiore
al resto dei paesi in via di sviluppo. E le previsioni al ribasso del Fondo monetario internazionale per il 2008 confermano che il Sudamerica continuerà a essere la regione con la crescita più bassa.
Un mondo scomparso
Da decenni l’America Latina vive in modo più accentuato le fasi discendenti dell’economia mondiale. Una situazione che minaccia di ripetersi anche oggi a causa della scarsa integrazione
economica regionale. Di fronte a una diminuzione della domanda internazionale, quella regionale non riesce a funzionare come ammortizzatore. In nuove forme prosegue l’antica tradizione
coloniale caratterizzata da un’alta integrazione con i mercati internazionali e da una bassa integrazione continentale. La tradizione si è conservata fino a oggi a causa dei nazionalismi
economici e di una bassa consapevolezza sociale e politica dell’importanza dei processi di cooperazione a lungo termine tra i paesi latinoamericani. Insieme all’Africa, l’America Latina è la regione del mondo con il minor grado d’integrazione economica tra i paesi della stessa area.
Nell’immediato, comunque, lo scossone sarà attenuato dai prezzi dell’energia (greggio ed etanolo) e della soia, di cui il sud è ricco. Ma una benedizione a breve termine potrebbe produrre effetti indesiderati sul lungo periodo. Anni fa la coabitazione di un settore energetico fiorente e di un’economia fragile si chiamava “sindrome olandese”. E il Venezuela illustra bene il caso. Per non parlare dei danni ambientali provocati dall’aggressiva espansione della frontiera agricola in
Brasile, Paraguay e Argentina associata al boom della domanda mondiale di soia. In questi anni in America Latina sono cambiate alcune cose importanti. Dal 2003 al 2007 le esportazioni sono
passate da 400 a 800 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, e dopo sei anni di stagnazione, il pil pro capite è cresciuto del 15 per cento, mentre la povertà è passata dal 44 al 35 per cento.
Come sempre i dati sulla povertà dipendono da classificazioni in larga misura arbitrarie, ma il senso di marcia degli ultimi anni è comunque evidente: lentamente e in forme diseguali le cose
stanno migliorando. La prudenza, comunque, è d’obbligo anche in questo caso. Non sono ancora disponibili i dati sull’attuale distribuzione dei redditi (saranno resi noti solo tra qualche anno),
ma non è azzardato supporre che alla fine di quest’ultimo ciclo di crescita economica l’America Latina sarà ancora la regione più polarizzata del pianeta. Secondo una recente ricerca brasiliana, il 10 per cento della popolazione del paese controlla il 75 per cento della ricchezza. È una proporzione simile a quella di duecento anni fa, quando il Brasile era una colonia portoghese.
Se questi dati fossero confermati verrebbe la tentazione di chiedersi se le storie del Guatemala, dell’Ecuador, del Messico, della Colombia, del Paraguay o della Bolivia siano sostanzialmente
diverse. Eppure è ovvio che, da molto tempo, l’America Latina non è più un mondo di grandi latifondisti che detengono il potere assoluto a livello locale, come la Sicilia non è più quella dei baroni e dei gabelloti. Perché allora in questa regione la distribuzione dei redditi continua a riflettere delle divisioni sociali che ricordano un mondo scomparso? Cosa ha permesso al passato di sopravvivere così a lungo?
economica regionale. Di fronte a una diminuzione della domanda internazionale, quella regionale non riesce a funzionare come ammortizzatore. In nuove forme prosegue l’antica tradizione
coloniale caratterizzata da un’alta integrazione con i mercati internazionali e da una bassa integrazione continentale. La tradizione si è conservata fino a oggi a causa dei nazionalismi
economici e di una bassa consapevolezza sociale e politica dell’importanza dei processi di cooperazione a lungo termine tra i paesi latinoamericani. Insieme all’Africa, l’America Latina è la regione del mondo con il minor grado d’integrazione economica tra i paesi della stessa area.
Nell’immediato, comunque, lo scossone sarà attenuato dai prezzi dell’energia (greggio ed etanolo) e della soia, di cui il sud è ricco. Ma una benedizione a breve termine potrebbe produrre effetti indesiderati sul lungo periodo. Anni fa la coabitazione di un settore energetico fiorente e di un’economia fragile si chiamava “sindrome olandese”. E il Venezuela illustra bene il caso. Per non parlare dei danni ambientali provocati dall’aggressiva espansione della frontiera agricola in
Brasile, Paraguay e Argentina associata al boom della domanda mondiale di soia. In questi anni in America Latina sono cambiate alcune cose importanti. Dal 2003 al 2007 le esportazioni sono
passate da 400 a 800 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, e dopo sei anni di stagnazione, il pil pro capite è cresciuto del 15 per cento, mentre la povertà è passata dal 44 al 35 per cento.
Come sempre i dati sulla povertà dipendono da classificazioni in larga misura arbitrarie, ma il senso di marcia degli ultimi anni è comunque evidente: lentamente e in forme diseguali le cose
stanno migliorando. La prudenza, comunque, è d’obbligo anche in questo caso. Non sono ancora disponibili i dati sull’attuale distribuzione dei redditi (saranno resi noti solo tra qualche anno),
ma non è azzardato supporre che alla fine di quest’ultimo ciclo di crescita economica l’America Latina sarà ancora la regione più polarizzata del pianeta. Secondo una recente ricerca brasiliana, il 10 per cento della popolazione del paese controlla il 75 per cento della ricchezza. È una proporzione simile a quella di duecento anni fa, quando il Brasile era una colonia portoghese.
Se questi dati fossero confermati verrebbe la tentazione di chiedersi se le storie del Guatemala, dell’Ecuador, del Messico, della Colombia, del Paraguay o della Bolivia siano sostanzialmente
diverse. Eppure è ovvio che, da molto tempo, l’America Latina non è più un mondo di grandi latifondisti che detengono il potere assoluto a livello locale, come la Sicilia non è più quella dei baroni e dei gabelloti. Perché allora in questa regione la distribuzione dei redditi continua a riflettere delle divisioni sociali che ricordano un mondo scomparso? Cosa ha permesso al passato di sopravvivere così a lungo?
continua
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