Junky Star - Ryan Bingham & The Dead Horses (2010)
Prima di tutto, una piccola introduzione che vi fa capire quanto sia un novellino rispetto a un genere musicale come quello trattato da Bingham (fresco premio Oscar per The Weary Kind da Crazy Heart, pezzo presente in alcune versioni come bonus) e soci: fino a quando ho deciso di scrivere questa recensione, mai avevo sentito né letto il genere americana, sotto il quale è catalogato di solito. Apprezzate quindi non solo l'onestà, quanto il punto di vista fresco e pulito del vostro recensore preferito di sempre.
Il ragazzo che, come faceva giustamente notare l'amico Monty, si chiama esattamente come il protagonista di Up In The Air (o magari è il contrario), ha "solo" 29 anni, ma pare aver assorbito alla perfezione tutto lo scibile che, appunto, il genere indicato raccoglie. E, badate bene, americana è, come si disquisiva allegramente con amici (soprattutto loro), un'etichetta molto generica che, appunto, ingloba e raccoglie una vastità di generi, sottogeneri ed influenze.
Per chi, come me, è un po' fuori dal giro giusto (cit.), è naturale accostare Bingham anzitutto a Springsteen, fino ad arrivare a Dylan (ma senza scomodarlo, ci mancherebbe), mentre per dare un'idea a chi vi arriva dal lato rock, potrei comodamente accostarlo al lato country-folk dei Pearl Jam, o meglio, alle cose soliste di Eddie Vedder, come per esempio la colonna sonora di Into The Wild.
I più attenti fanno notare che per questo terzo disco (ma in realtà ne ha fatti almeno altri due, autoprodotti), Bingham ha cambiato produttore, passando dal Marc Ford di blackcrowesiana memoria, al veterano T-Bone Burnett, col quale in pratica ha cominciato a collaborare materialmente per la composizione del pezzo col quale ha/hanno vinto l'Oscar, citato prima; ne prendiamo atto. Quel che c'è, adesso, è un disco che, come capita sempre più spesso, è moderno pur avendo un sapore stantìo (nel senso buono del termine, se ce n'è uno), buone canzoni suonate da buoni musicisti, e quella voce che ricorda altre voci (c'è chi addirittura si è lanciato in un paragone con Tom Waits, e sinceramente non l'ho capito), ma che colpisce, e spesso affonda l'ascoltatore (sempre in senso positivo). Confesso che mi affascina anche la pronuncia (è nato in New Mexico e cresciuto in Texas), così come pezzi quali The Wandering, Hallelujah, Self-Righteous Wall, come pure la title-track.
Lo chef consiglia l'ascolto al tramonto, magari sul mare (va bene anche d'inverno), con qualcosa di alcolico e da fumare. Siccome penso anche a voi, che non beneficiate di questo plus, potete sopperire con la campagna sconfinata, e addirittura con un naviglio.
3 commenti:
Sono riumasto molto colpito da questo disco...bello bello bello...ma d'altronde era facile che ne rimanessi folgorato data la mia estrazione springsteeniana!
grazie ale per il suggerimento!
mi piace tantissimo la sua voce!
immagino che per orecchie femminili possa risultare anche sexy
la butto lì
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