Alambrado - di Marco Bechis 2001
Giudizio sintetico: per appassionati
Patagonia argentina, a oltre 1000 km dall'aeroporto più vicino (Comodoro Rivadavia, divertitevi a cercarlo sull'atlante), in riva all'oceano Atlantico, una "riva" fatta di scogliere altissime a picco sul mare. Il vento soffia fortissimo ogni giorno, le case sono piene di spifferi, il villaggio è desolato oltre che isolato. Poco lontano dal villaggio, in località Last Hope, vive la famiglia Logan: il padre Harvey, di famiglia scozzese trapiantata in Argentina da generazioni, i figli Eva e Juan. La madre è scomparsa in un giorno senza vento: di solito, quando questo accade, succedono sempre cose strane. Harvey è rude e taciturno, campa la famiglia vendendo vecchi mobili. Eva è quasi maggiorenne, e turba tutti gli uomini che passano dal villaggio, suo fratello compreso, studia il francese con le audiocassette, conosce l'inglese, sogna di andare a Parigi. Juan studia a memoria le genealogie della Bibbia per partecipare ad un quiz televisivo.
L'arrivo di un inglese, inviato da un gruppo che vuol costruire nella zona un albergo e una pista d'atterraggio, proprio nella terra antistante la casa dei Logan, perchè è l'unico punto dove il vento soffia in modo da favorire l'atterraggio dei voli, accompagnato da un ingegnere argentino, sconvolge la situazione. Harvey si oppone e non vuol sentire ragioni, "perchè quando guardo, mi piace non vedere niente intorno", e si mette a costruire un alambrado, un recinto rudimentale composto da fil di ferro, legno e paletti metallici, che secondo il diritto patagonico, seppur non esiste un catasto, rendono assoluto proprietario chi abita un pezzo di terra anche senza averlo mai acquistato, basta che apporti migliorie minime (anche, appunto, un alambrado).
Nel frattempo, il vento patagonico non smette di soffiare mai. O quasi.
Film di debutto di Bechis, italo-cileno buon ottimo conoscitore del Sud America, autore poi in seguito di Garage Olimpo, Figli/Hijos, La terra degli uomini rossi, film che affronteranno drammi socio-politici del continente del sogno bolivariano; qui invece, il regista comincia i suoi lungometraggi con una storia sbilenca, morbosa, violenta, con protagonista principale un non-luogo mitizzato da molti (a ragione, lo dico a ragion veduta): la Patagonia.
La tecnica è ancora molto grezza, come pure la scrittura (a quattro mani con Lara Fremder, che lo accompagnerà per tutta la sua carriera fino ad oggi), che avanza apparentemente senza meta, almeno per la prima parte, mettendo in campo alcuni personaggi secondari non sempre indispensabili, risolvendo nel finale la storia, forse un po' frettolosamente, con una serie di colpi di scena piuttosto violenti, eppure mai macabri. Atmosfera rarefatta, che rende bene l'idea di come si vive vicini al nulla, personaggi strambi vagamente felliniani. Direzione degli attori non ineccepibile, nel cast spicca la faccia "strana" di Enrique Ahriman (Sanchez, l'ingegnere argentino) e la figura morbosamente inquietante di Jacqueline Lustig (Eva), più per il personaggio che per l'attrice in sé.
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