Chi non può o non sa arrangiarsi protesta
Dalla Scozia alla Bulgaria i camionisti scendono in piazza e bloccano le autostrade e Gordon Brown fa un'umiliante marcia indietro sull'aumento di due penny della benzina. I pescatori sfilano nelle capitali europee. A Madrid alcuni regalano il pesce ai passanti per far capire che il carburante assorbe tutti i profitti della pesca.
Per risparmiare, gli armatori del bacino del Mediterraneo non fanno più viaggi lunghi, quelli turchi e libanesi ormai lavorano solo nel mar Nero, e nessuno vuole spingersi fino all'Africa settentrionale. Tutti aspettano l'intervento dello stato e si chiedono perché tardi tanto. C'è chi sostiene che è la velocità con cui si è verificata l'impennata dei prezzi a paralizzare i politici.
Negli ultimi dodici mesi il costo di un litro di benzina è salito del 17 per cento nel Regno Unito, del 15 per cento in Austria e dell'8 per cento in Francia. Si tratta però di una giustificazione debole. All'inizio dell'ottobre 1973 un barile di petrolio costava tre dollari, poche settimane dopo dodici: quello fu un vero shock petrolifero.
Ma la natura della crisi ci riporta comunque agli anni settanta: uno squilibrio tra domanda e offerta fa crescere i prezzi e altera gli equilibri delle bilance dei pagamenti.
Chi importa petrolio soffre un deficit della bilancia commerciale, primi fra tutti gli Stati Uniti che consumano venti milioni di barili al giorno, circa il 25 per cento della domanda mondiale, e ne importano il 60 per cento a un costo giornaliero di un miliardo e mezzo di dollari. Le importazioni di gas e petrolio, e non le merci provenienti da Cina e Giappone, sono le voci principali del deficit commerciale statunitense.
continua
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