No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20100302

una storia esemplare


Da D la Repubblica delle donne, nr. 683. Se non conoscete già questa storia (cosa piuttosto improbabile, è troppo clamorosa), preparatevi a commuovervi. Un idolo.


Non sono arrabbiato
Così ha detto James Bain dopo 35 anni di carcere (era innocente)

di Michele Neri
Mister James Bain?

Yesssir!

Risponde una voce squillante, genere pronto-per-servirla. La voce di un uomo normale diventato sublime attraverso un destino atroce, la stessa voce che un paio di mesi fa aveva pronunciato con tono serafico una risposta gigantesca. Cosa aveva detto l'afroamericano cinquantaquattrenne il 17 dicembre scorso, quali parole aveva scelto per accogliere con un sorriso la piccola folla che lo aspettava davanti alla prigione della Florida dove aveva passato oltre 35 anni da completo innocente? "I'm not angry". Non sono arrabbiato. In quella prigione era entrato, diciannovenne, nell'estate del 1974, quella delle dimissioni di Nixon per lo scandalo Watergate, subito dopo che la Germania aveva vinto il Mondiale tedesco, prima delle prime trasmissioni di Telemilano da Milano2. Oltre diecimila giorni senza mai uscire di carcere sapendo di non aver fatto nulla e poi, giusto in tempo per andarsi a vedere Avatar, dopo che lo stesso tribunale che lo aveva condannato gli aveva appena detto: you're a free man, James Bain, quasi fosse passato un solo secondo dal 1974 o come se nei pochi metri dalla porta della prigione al microfono di stampa e tv avesse già vissuto altri diecimila giorni di libertà, prende il cellulare (che non aveva mai provato) fa la sua prima telefonata alla mamma Sarah e con un gran sorriso conquista tutti, dicendo che si sente "come quando sono sbarcati sulla Luna, è il momento del touchdown". E poi no, "non sono arrabbiato".

Prima di chiamarlo mi ero fatto mandare gli atti del processo dall'avvocato Seth Miller che, a capo dell'Innocence Project of Florida, lo aveva aiutato a dimostrare la sua innocenza, facendo di lui il recordman americano (su 245) di durata d'ingiusta detenzione prima di essere riabilitati dal test del Dna. Dopo averli letti, la mia incredulità di fronte alla reazione equilibrata dell'uomo era aumentata, e mentre componevo il suo numero mi chiedevo come potesse mai dedicarmi anche un solo minuto del suo preziosissimo tempo.

La notte del 4 marzo 1974 un ragazzo entra nella casa dove dorme un bambino di nove anni, lo rapisce, lo porta in un campo di baseball vicino a casa e lo violenta. Dall'identikit che traccia il bambino - un giovane con baffi, grandi basette, barba - lo zio dice: sembra proprio Jimmy Bain, un ragazzo che passa spesso in moto nel quartiere. La polizia va a prenderlo, non importa che lui abbia anche un alibi (stava guardando con la sorella Janie Medical Center alla televisione).

Gli elementi con cui lo condannano il 23 agosto sono questi due. L'identificazione, fatta propria dal bambino (ma indotta dallo zio) e il test sierologico effettuato dall'FBI sullo sperma ritrovato sulle mutande del bambino. Quando la polizia mostra cinque o sei foto al bambino non gli chiede di scegliere l'immagine dell'assalitore ma quella di James Bain. Il referto del laboratorio è ancora più spaventosamente vago: il gruppo sanguigno di Bain "non esclude" la possibilità che lo sperma sia il suo. Risultato: ergastolo.

In tutti gli anni di detenzione, James Bain ha sempre cercato di dimostrare la propria innocenza e quando, nel 2001, in Florida è stata approvata la legge per cui i condannati potevano chiedere il test del Dna, ha provato quattro volte, ma tutte le sue richieste sono state respinte dal tribunale. Nel 2009 ci prova l'energico avvocato Seth Miller: "James Bain era un caso ideale per il nostro Innocence Project. Nessuno poteva aiutarlo, non aveva soldi né una particolare istruzione per cercare di difendersi da solo. Quindi ci siamo messi in contatto con lui". Un laboratorio di diagnostica dell'Ohio riesamina le mutande del bambino. L'esito dell'esame sul Dna, comunicato il 9 dicembre 2009, è chiaro: Bain è innocente. "Il signor Bain non è connesso con questo caso", dirà il giudice. Riceverà un rimborso di 1.7 milioni di dollari. Appena uscito ha parlato anche dell'importanza di riabbracciare la mamma malata, dell'importanza di Dio, del fatto che aveva voglia di mangiare del tacchino fritto, che si sentiva bene e avrebbe ricominciato a studiare. La notizia della liberazione e della completa riabilitazione ha raggiunto anche la vittima dello violenza, che ora ha 44 anni e vive sempre in Florida.

Al telefono con Bain in una mattina del suo primo febbraio da molti anni, cerco di raccogliere un frammento illuminante dall'infinita massa di ricordi, oggetti e sogni perduti, paure, desideri, rinunce, tempo, stagioni, amnesie che possono averlo segnato in questi 35 anni. Ma la sua felicità nonostante tutto, la sua serenità nell'accogliere i colpi del destino resterà una meraviglia senza spiegazioni. Oltre a quella offerta dallo stesso Bain appena uscito di prigione, stretto in una maglietta nera con la scritta not guilty (non colpevole): "Dio è dentro me".

Come si sente?

"In splendida forma!"

Come ha fatto a superare un destino così ingiusto?

"Un giorno alla volta, man. Molto esercizio fisico per tenermi in forma e il gioco degli scacchi".

Nessuno le ha chiesto scusa, nemmeno uno dei dodici giudici che l'hanno condannata (accompagnando il verdetto di innocenza hanno solo aggiunto un offensivo congratulazioni...)

"Non importa, la vera vittima è sempre stata soltanto una, il bambino".

Cosa ricorda di se stesso nel 1974?

"Mi sentivo perduto".

Non è mai stato arrabbiato?

"All'inizio sì. Poi ho cominciato a capire che cosa era successo. La fede mi ha aiutato".

(Parlando di lui, l'avvocato Miller mi aveva fatto il ritratto di una persona con un equilibrio incredibile e piena di self-control, un uomo che non aveva mai fatto la vittima e, dopo la rabbia iniziale, aveva capito che se voleva sopravvivere e poter vivere anche fuori un giorno liberato, doveva darsi pace e creare dentro di sé uno spazio positivo).

Qual è stato il momento peggiore?

"Ogni giorno, man".

Squilla il suo nuovo cellulare, si mette d'accordo per uscire con un amico. Mi chiede di aspettare un secondo, passano dieci minuti.

Qual è la sua giornata ideale?

"Accudire la mia mamma malata. Studiare per prendere il diploma".

Sono due mesi che è libero, cosa l'ha colpita di più del mondo esterno?

"I computer e le automobili".

È riuscito a ridere di tutto ciò?

"Un sacco di volte, man".

Nessuna difficoltà nel reinserirsi nella vita di relazione, per Mr Bain (tra poco andrà in Germania dove lo aspettano degli amici che lo hanno cercato dopo aver saputo della sua vicenda). Il mondo reale sembra essersi accorto di lui - è stato invitato a Philadelphia per suonare la campana della Libertà di Martin Luther King, gli hanno allestito un elegante pranzo allo Sheraton; il suo buon avvocato riuscirà probabilmente a fargli ottenere ancora un po' di soldi. Bain dice che vuole scrivere, e mi aspetto un gran libro sulla sua esperienza. Ma è in un altro campo, quello dell'incredibile, di chi ha compiuto un viaggio infinito nella sofferenza e nella forza, di chi è stato grande come la tempesta e piccolo quando è finita, di chi ha scritto una storia per tutti con tre parole: non sono arrabbiato, anche a nome di quanti hanno avuto un destino come il suo e non sono riusciti a dirle, queste tre parole, che James Bain ha scelto di vivere e farsi ricordare.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

adesso aspettiamo che qualcuno faccia un film su questa triste storia.

il colore della pelle lo ha sicuramente penalizato,il carattere aiutato.
GRANDE UOMO!

Anonimo ha detto...

A me non sconfinfera questa storia. Un trauma l’ha vissuto e non ne esci dicendo “ehi, va tutto bene!”. Chissa’ cosa avra’ subito in carcere e che non raccontera’ mai, chissa’ che cosa passa veramente nella sua testa.
Sono scettica sui nuovi Jesus Christ (che anche Lui messo in croce disse ”padre, perche’ mi hai abbandonato” mica “yessir” ecchediamine!)

Anna dai capelli rossi

jumbolo ha detto...

Beh Anna, concordo, è difficile da credere. Chissà. Se fosse vero, ed è quasi matematico che per sopportare un'ingiustizia così uno si rifugi nella fede, inventata o no, è veramente un caso interessante. Se fosse un "fake", pazienza. Spesso è bello essere creduloni :)

Anonimo ha detto...

Lo so Jumbolo, non lo prendo per un “fake”, pero’ che questo Signore esca dal carcere e faccia passare 35 anni di reclusione per una doccia fredda, solo grazie alla forza della fede, non mi torna, e’ non-umano, oppure pazzo. Pare sia stato in vacanza... zero sofferenza, zero rancore, zero rabbia, solo sorrisi e buon umore, tutto il resto e' represso. Raccontarlo a Freud si spancerebbe dal ridere.

A tutti piace sentire storie a lieto fine, ma spesso ci scordiamo che le zone d’ombra ci sono, sempre.

Anna d.c.r.