Terra promessa – di Amos Gitai 2005
Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)
Giudizio vernacolare: fa sta male eh, io ve lo di'o
Storia tormentata e triste di un gruppo di immigrate dall’est europeo in Israele; attraverso il Sinai, la frontiera con l’Egitto (dove un gruppetto di beduini, che le ‘’accompagna’’, troverà il modo di umiliarle ulteriormente), e poi, la vera e propria ‘’tratta delle bianche’’: vendute all’asta al miglior offerente, mostrate seminude alla luce delle torce elettriche, esaminate nella dentatura ma soprattutto a livello estetico (i capelli, colore e lunghezza, il sedere, il seno, la faccia da porca o meno, la presunta verginità), e poi destinate ai bordelli (o night club spinti, come preferite), dove la trafila di sottomissioni e umiliazioni continuerà, fino al finale a sorpresa. Diana, la meno rassegnata del gruppo, proverà ad affidarsi alla sensibilità di una giovane turista per liberarsi dalla schiavitù.
Gitai, dopo molti film validi ma abbastanza lineari come stile, per raccontare la piaga della prostituzione come mezzo/costrizione di fuga dalla povertà, tenta con uno stile fatto di digitale e camera a mano, unito ad una narrazione che, verso la seconda parte specialmente, diventa onirica e sinceramente poco chiara anche se piuttosto suggestiva. La scelta è, a detta del regista stesso, di non spettacolarizzare, voyerizzare o edulcorare la prostituzione e ciò che le sta intorno, e su questo concordiamo. Il risultato è un coinvolgimento totale dello spettatore, e un reale malessere, una sensazione fortemente disturbante di fronte alle scene (molte) di violenza e costrizione inflitte alle ragazze, riprese così nervosamente e da vicino.
La seconda parte purtroppo, non va in profondità, ed inoltre diventa confusa in maniera davvero esagerata; il finale non serve a riscattarla.
Un film riuscito a metà.
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