Le crisi, come le loro tragiche conseguenze, sono sempre accompagnate da lezioni che devono essere imparate da tutti. Il caos di questi giorni significa che il Kenya non sarà più lo stesso perché ha portato alla ribalta e focalizzato su malattie e problemi che affliggono da decenni questo stupendo paese.
Il paese non può più guardare avanti ignorando le fragili Istituzioni dello Stato, la disparità tra uomini e donne, eticità, classi sociali, corruzione, povertà, dei politici vincenti a tutti i costi, la revisione della vecchia Costituzione, il bisogno di un cambio di politica creando un nuovo ordine democratico che porterà avanti un rinnovamento fondamentale delle riforme necessarie prima fra tutte aiutare i giovani ad uscire dall’emarginazione dove sono stati confinati in tutti questi anni e “usati” prima e durante questa crisi politica e nazionale.
Il Kenya ha una grande opportunità di riemergere dalla crisi più forte e più unito di prima. Ha una grande possibilità di diventare una grande nazione. Cioè passare da un paese con 42 etnie diverse ad una Nazione coesa dove una volta per tutte i veri problemi della gente diventano agenda del Parlamento e anche delle “potenti elite locali e internazionali”.
Siamo stati e siamo ancora tutti testimoni di quanto l’opinione pubblica internazionale, i media, le nazioni del Nord del mondo, l’Unione Africana, le Nazioni Unite, grossi imprenditori locali e internazionali e tanti altri si siano mossi con tempestività per “salvare” il Kenya. Certamente non tanto per filantropia ma per interessi che vanno oltre il popolo keniano essendo questo paese al centro di una strategia geo-politica, economica e militare che interessa a troppe istituzioni: che non discenda la china di una guerra civile senza ritorno.
Eppure la politica dei “politici vincenti a tutti i costi anche quando si perde” era stata rifiutata dalla gente già quando il Narc (coalizione arcobaleno vincente nel 2002) venne scelto a dirigere il paese dopo 24 anni di dittatura del suo vecchio presidente Daniel Arap Moi (oggi grande sostenitore di Kibaki…) e di 40 anni di superpotere del partito unico Kanu, cioè dall’indipendenza.
Infatti in quell’anno Mwai Kibaki firmò un accordo-memorandum per condividere i poteri politici con a quel tempo suoi alleati Raila Odinga (oggi maggiore esponente opposizione e accusatore di Kibaki di grossi brogli elettorali) e Kalonzo Musyoka (oggi vice presidente…) che se fosse stato promosso seriamente sin dall’inizio assisteremmo oggi a una differente cultura politica in questo paese.
Nel Referendum del 2005 chiaramente i keniani mostrarono che volevano significativi cambiamenti e non cosmesi alla vecchia costituzione. Infatti la coalizione del governo Kibaki perse con più di un milione di voti contro un’opposizione che guarda caso comprendeva già coloro che oggi sono sulla scena politica attuale: Kalonzo Musyoka e Raila Odinga insieme ad altri dissidenti convenuti nella costituzione del movimento di opposizione ODM (Orange Democratic Movement). I cittadini e la società civile volevano riforme della terra, distribuzione delle risorse e avere più voce in capitolo su come il paese è governato, la cosiddetta “devolution of power”.
Se la nuova costituzione fosse stata approvata in 100 giorni (una delle 3 famose promesse fatte dal governo 2002 di Kibaki-Raila-Musyoka che comprendeva anche lotta alla povertà e alla corruzione….guarda caso nessuno dei tre obiettivi è stato raggiunto in cinque anni di potere…!!??) avrebbe provveduto ad una condivisione dei poteri fino ad ora concentrati totalmente nella figura del solo presidente; l’istituzione di un potere esecutivo (primo ministro) e della “devolution of power” con altre istituzioni, una distribuzione equa delle risorse nazionali, e tanto altro che era già contenuto nelle bozze ormai pronte da oltre “10 anni di lavoro” prima e dopo le elezioni del 2002. Certamente il Kenya avrebbe fatto un grande passo avanti nella costruzione di una Nazione rispettando le 42 comunità etniche che ne fanno parte. One Country, one Nation! Questo è lo slogan che oggi sentiamo ripetere spesso dai media locali. Sicuramente abbiamo perso molto tempo…..
Certamente ciò che si percepisce chiaramente in questo momento è una crisi politica dove le “negoziazioni di pace” sono imbevute da una cultura e mentalità del presidente-padrone dove il supposto vincitore vince tutto!! Sia per Kibaki che per Raila. Ed è assurdo che il messaggio che passa ai cittadini è che 4 comunità etniche politicamente in vantaggio numerico (kikuyu, luo, luhya e kamba) facciano da padrone sulle altre 38 comunità etniche; e che la provincia Centrale (del presidente Kibaki) e quella dell’Est (vice-presidente Musyoka) hanno il diritto di comandare oggi il resto delle altre 6 province dove hanno ottenuto molto meno voti dell’altro candidato d’opposizione. Anche Raila che ha rifiutato qualche settimana fa l’eventuale proposta di condividere i poteri esecutivi di Kibaki, deve ricordarsi che fu lui stesso a proporre questa suddivisione di poteri nel famoso memorandum 2002 dove lo “sharing of political powers” e la costruzione di coalizioni tra partiti al di là dell’appartenenza a particolari etnie era talmente enfatizzata. Purtroppo molti partiti rappresentano ancora solo una o poche comunità etniche. E’ tempo di uscire da questo labirinto etnico che non porta a far respirare il paese a pieni polmoni proprio perché confinati ad una politica partitica molto chiusa ed etnica. E’ per questo che i keniani hanno bisogno di una nuova costituzione prima di arrivare ad eventuali nuove elezioni presidenziali magari dopo un governo di transizione di uno o due anni altrimenti non ci sarà nessun passo in avanti nello scenario politico, economico e sociale del paese. Se “assumiamo” al di là della diatriba brogli che Kibaki abbia ottenuto veramente 4,5 milioni di voti e il concorrente Raila Odinga 4,3 milioni come annunciato dalla Commissione Elettorale Keniana perché non povrebbe esserci l’opzione della condivisione dei poteri? Questa sembra anche la via tracciata dai mediatori internazionali Kofi Annan, Graca Machel e Mpaka in questi giorni.
Lo status quo non può continuare così. Ci deve essere un cambiamento positivo. Ci sono grossi problemi davanti alla nazione e ai politici: disparità sessuale, terra in mano a pochi ricchi e anche divisa etnicamente, estrema povertà e miseria, disoccupazione giovanile, marginalizzazione di alcune comunità etniche, pochi miliardari in mezzo a milioni di poveri (tra 50-60% di Keniani vive con meno di un dollaro al giorno), corruzione a tutti i livelli, promozione di interessi militari ed economici stranieri (si noti “l’interesse” che ha la comunità internazionale verso il Kenya) sostenuta da un’elite politica ed economica corrotta, politiche del divide et impera che hanno portato nel corso di questi anni a questa crisi politica, etnica, sociale ed economica.
In un eventuale successiva elezione presidenziale del 2012 i keniani dovrebbero rigettare lo status quo simbolo di una politica etnica, di potere e di interessi personali, votando un leader che non sia Kibaki, Raila o Kalonzo Musyoka. La nascita di una nuova e giovane leadership politica è auspicabile ed è giunto il tempo che anche le Chiese, le varie religioni, la società civile e altre istituzioni si impegnino a formare nuove classi politiche attente alle masse e ai poveri ma soprattutto ai principi e valori del servizio onesto e leale ai propri cittadini, nessuno escluso.
Se le statistiche sono corrette che i keniani sotto i 31 anni sono l’80% della popolazione come possiamo essere sicuri che i giovani stanno battendosi per difendere gli interessi etnici e non per disperazione, per povertà, marginalizzazione e insicurezza?? E’ importante mettere nell’agenda a tutti i livelli della società keniana dei prossimi anni un lavoro intenso di riconciliazione e interetnicità soprattutto focalizzando sulle giovani generazioni che hanno già dato prova di “esserci”: nella scuola, chiese, moschee, fabbriche, uffici, politica, sport, media e governo.
p. Daniele Moschetti
Nessun commento:
Posta un commento