No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20090303

mama Africa 4


Da D la Repubblica delle donne, nr. 634. A proposito di agghiacciante.



FUTURO RUANDA
Solidarietà

Ibuka significa "mai dimenticare". Quindici anni dopo il genocidio, i figli delle violenze e le loro madri si raccontano. Incubi, speranze. E un sogno di pace per l'Africa

di Emilio Manfredi

Mi chiamo Catherine e questa è la prima volta che parlo di quello che mi è successo. Quindici anni fa. Perché alla fine mi sono convinta che il silenzio produce ancora più dolore. Allora provo a raccontare la mia storia. Soffrire non è morire. E la sofferenza ti fa andare avanti. Scappavamo dal villaggio dopo giorni di massacri. Arrivammo a un posto di blocco. Un miliziano mi puntò contro il machete. "Ammazziamo questa", disse agli altri. Avevo solo diciassette anni. Pensai: "Non ha senso. Perché proprio io?". Urlai: "Te la prendi con me e non con le altre persone che avete fermato. Perché?". Lui rispose: "Muori perché sei tutsi". Mi sentivo svenire. Cercavo di prepararmi all'idea. Ma come si fa? Un altro Interahamwe lo fermò. "No, non lei. È bella. Me la prendo io". Ero ancora vergine. E sapevo che quell'uomo voleva violentarmi. Allora gli parlai, piano. "Sono solo una studentessa. Sono giovane. Aspetta. Finita la scuola, potrò essere tua moglie. Per favore. Non farlo". L'uomo mi osservò per un attimo, prima di rispondere. "Non hai più tempo per andare a scuola. E non ti sposerai mai. Se hai fortuna e sopravvivi, potrai farmi da serva in casa". Mi rinchiuse in uno scantinato. Per sé e i suoi amici. Arrivavano ogni giorno. Ogni mattina. Ogni sera. Sempre un uomo diverso. Si dicevano: "C'è una bella tutsi laggiù". Mi prendevano a turno. Non so quanti ne siano passati. Per due mesi questa è stata la mia vita. Se così si può chiamare quella condizione. Un giorno riuscii a scappare. Pensavo fosse finita. Qualche mese dopo vidi la mia pancia crescere. "Una creatura che nasce da sesso non volontario non è un essere umano", mi ripetevo. "Porto in grembo un animale". Tentai di abortire. Non ci riuscii. Provai a suicidarmi, buttandomi nel fiume. Ma un uomo mi salvò. E dopo mi violentò ancora. "Il tuo corpo per la tua vita", disse. Al nono mese decisi: una volta nato, non avrei allattato mio figlio. "Morirà di fame". Eugene è stato più forte di tutto questo. È sopravvissuto. E io ho cominciato ad amarlo. Poi sono tornata a scuola. Lì ho capito che il mio bambino aveva bisogno di maggiori attenzioni, perché figlio di quella sofferenza. Ho compreso che era innocente. Allora ho cercato di cancellare l'odio. E trasformarlo in amore. Ora Eugene sta crescendo. Osserva il mondo. E non sa di essere figlio della guerra. Non sa che io sono sieropositiva. Non gliel'ho mai detto. Però ascolta le parole degli altri. Va a giocare con i bambini dei vicini e lo chiamano killer. Se tira un sasso, gli dicono che ha il carattere di un miliziano. Gli ripetono che la sua gente ha ucciso la mia famiglia. Eugene torna a casa e mi racconta tutto. L'amico di giochi di mio figlio si chiama Inkuba. "Guerra", nella nostra lingua. Sua madre è stata violentata, come me. La sua sofferenza era tale che non ha saputo immaginare un nome diverso per suo figlio. Eugene si fa delle domande. "Che razza di persona sei?", ha trovato il coraggio di chiedermi un giorno, tornato da scuola. "Perché non abbiamo un papà? Perché nessun parente viene mai a trovarci?". Ho cercato a lungo le parole. Poi gli ho spiegato che c'è stata una guerra, qui in Ruanda. Suo padre è morto. Tutta la famiglia è morta. Il padre, però, lo ascolta. E lui gli può parlare. Un giorno gli svelerò ogni cosa. Presto. Ma voglio che Eugene sia grande abbastanza per capire. Devo aspettare ancora un poco. Però ho un problema: l'Aids mi sta portando via. La malattia non mi preoccupa come la vita di mio figlio. Eugene è la mia vita. Per questo non voglio sapere se anche lui è sieropositivo. Non riuscirei a sopportarlo. L'Aids ed Eugene. Sono le eredità che mi ha lasciato il genocidio. Come dimenticare? Quindici anni dopo, gli effetti sono ancora qui. Sulla nostra pelle. I nostri bambini sono il frutto delle violenze. Non hanno colpe, loro. Noi moriremo, ma questi ragazzi sono responsabilità di tutti. Siamo state costrette a essere prima "mogli" e poi madri. Abbiamo accettato i nostri figli e li amiamo. Non c'è nulla di terribile nel mondo che noi non abbiamo già sperimentato. Ora speriamo solo di poter morire in pace e che ci si occupi dei nostri ragazzi, nati quando il mondo guardava da un'altra parte. Lontano.


(Testo raccolto da Jonathan Torgovnik, elaborato e tradotto da Emilio Manfredi)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Fa parte di quella realtà che nel quotidiano cerchiamo (riuscendoci spesso) di rimuovere come per autodifesa. O per codardia. O senso di impotenza.