Da D la Repubblica delle donne, nr. 644. Interessante punto di vista che contesta "il banchiere dei poveri" Mohamed Yunus, e altre cose.
I poveri? Li inventiamo noi
PROVOCAZIONE
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Lo studioso iraniano Majid Rahnema attacca la Banca Mondiale, il microcredito. E la mentalità occidentale
di Alessandra Baduel
Fu un africano a farmi capire cosa non andava nelle nostre analisi. Ero in Mali per conto dell'Onu. Gli chiesi come faceva, nei giorni in cui non aveva da mangiare. Mi rispose con tre parole: "Vado dal vicino". Ecco, questo è qualcosa che il Primo mondo rende impossibile". E questo invece è uno dei problemi che pone l'iraniano Majid Rahnema, 85 anni e tante vite alle spalle: ministro dell'Università, della Ricerca e della Scienza (tra il 1967 e il 1971), poi al lavoro con i contadini di Alashtar, nel Lurestan iraniano, prima di girare il mondo per decenni, seguendo i programmi di sviluppo dell'Onu e dell'Unesco. "Lottiamo contro la povertà, o contro i poveri? Li definiamo così per aiutarli, o per sfruttarli meglio?". Le domande di Rahnema mettono in crisi molte ottime intenzioni. Svelano l'ambiguità di un modo di pensare che ci fa sentire più buoni, ma che forse ha un lato meno nobile, dove è di nuovo il Primo mondo a guadagnare - anche con le vite degli altri. Per spiegarsi, fa l'esempio di Mohamed Yunus, l'uomo che ha inventato il microcredito. Soprannominato "il banchiere dei poveri", premiato con il Nobel per la pace, secondo lo studioso iraniano è un perfetto esempio di quell'ambiguità. "L'idea iniziale è buona. In più i poveri sono affidabili: onorano sempre i loro debiti. Ma a ben vedere, si tratta solo di un'ottima operazione bancaria. Perché il microcredito prevede dei tassi d'interesse. E non mi risulta che qualcuno abbia mai contestato a Yunus il fatto che i suoi tassi sono fra il 30 e il 35 per cento. Ha anche fatto un patto con delle compagnie telefoniche, creando un meccanismo terribile: chi ottiene un prestito da lui, se compra un cellulare non paga più gli interessi. Ma intanto s'indebita con le compagnie. Per fortuna l'opposizione di Vandana Shiva gli ha impedito il patto analogo che voleva fare con la Monsanto, produttrice di semi Ogm". È dunque l'economia che crea la miseria? "L'attuale sistema emargina milioni di persone bollandole come povere. Secondo la Banca mondiale, sulla terra ne esistono quattro miliardi. Due milioni e 800 mila sono in povertà "relativa", cioè commisurata al nostro benessere: due dollari al giorno. Un milione e 200 mila vivono con meno di un dollaro al giorno. La chiamiamo povertà "assoluta". Ma sono definizioni e cifre che abbiamo creato noi". Secondo lo studioso iraniano, la scelta delle parole è importante. Molto importante. "In passato, "fare economia" significava gestire al meglio le spese di casa, o di un'attività. Oggi invece l'economia pensa solo a se stessa. E le campagne di "aiuto a chi ha bisogno" sono in realtà campagne contro quelle persone. È tutto calcolato, in modo che i poveri continuino a prendersi solo i nostri avanzi". Pensiero politico, quello di Rahnema? "Lo ammetto senza fatica: ragiono da socialista, da marxista, definiamolo come vogliamo questo pensiero, ma di questo si tratta". Ma ragiona anche da uomo con una cultura religiosa. "Non credo che Dio esista, e intendo il Dio dei poveri, che è diverso dagli altri Dei. Il poeta persiano Rumi (mistico sufi, ndr) raccontò una storia: un pastore sta accudendo il suo montone e intanto parla con Dio. "Tu pensi a tutti", dice, "e nessuno pensa a te. Vorrei tanto farlo io. Pulirti, accudirti, come faccio con il mio montone". Ecco, noi dobbiamo imparare a usare il linguaggio del pastore". Anche a questo ha pensato Rahnema, scrivendo Quando la povertà diventa miseria (Einaudi, 2005). "Miseria è l'impossibilità di avere beni di cui senti la necessità. Mentre in ogni lingua ci sono molte parole per dire "povero", in persiano per esempio sono addirittura ottanta. E ognuna corrisponde a qualcosa di differente". Lui divide più semplicemente la povertà in tre tipi. Quella volontaria dei profeti, quella "conviviale" di chi conduce un'esistenza semplice e dignitosa e quella moderna, creata dalla rivoluzione industriale. "È da allora che esiste un'economia interessata soltanto alle proprie necessità, che inventa dei "bisogni" fini a se stessi. È la società di mercato che ha creato condizioni tali da impedire alle persone di essere povere alla maniera tradizionale, togliendo loro potenza. Ed è questo che ha distrutto la povertà conviviale. Chi pensava, soltanto quindici o vent'anni fa, che tutti dovessero possedere un telefono cellulare? Ora, chi non lo ha sa che deve considerarsi un miserabile. E si parla dei poveri come se fossero dei parassiti. Nella storia degli esseri umani non c'erano mai state così tante persone messe ai margini dalla società". Ritorna l'uomo di cultura, questa volta con un ricordo filosofico: "Se si riesce a vivere secondo la propria potenza, allora ognuno "è" Dio, come dice Spinoza. Il povero deve poter essere fino in fondo se stesso, mentre noi dobbiamo scoprire la ricchezza di ogni individuo, invece di imporre una misura che è di pochi". Come Rahnema stesso spiega nellle pagine del suo ultimo libro, La puissance des pauvres (Actes Sud, 2008), quello stesso potere risiede nella possibilità di agire. Ma parlare di povertà "relativa" fino a non molto tempo fa era un gesto coraggioso: significava far accettare ai governi che se tutti hanno un bene anche non essenziale e qualcuno no, quella persona va aiutata. Ottima intenzione. Lo studioso però la contesta: "Il problema del mondo è che esiste un pugno di persone con molti soldi e che sono interessate soltanto a quelli. Per i poveri il punto centrale non è il denaro. Lo è diventato quando sono stati tolti a forza dal loro contesto". Come cambiare, allora? "Se dai a tutti quattro dollari a testa al giorno, non ci saranno più i quattro miliardi di persone in povertà che calcola la Banca mondiale, ma non avremo risolto nulla. Invece dobbiamo chiederci cosa vogliono realmente quei quattro miliardi di persone". Non si cambia il mondo con i soldi, ma neppure con le rivoluzioni. "Tutti pensano che si debbano trovare soluzioni economiche, ecco perché anche le rivoluzioni, pur con le migliori intenzioni, non hanno funzionato. Sono le persone che devono cambiare, dal basso. Gandhi diceva che il modo migliore di aiutare i poveri sta nel saltare giù dalle loro spalle. E propose la reintroduzione della filatura e della tessitura a mano nei villaggi, perché si potesse lavorare in maniera tradizionale e al tempo stesso fruttuosa. Bisognerebbe fare proprio questo. I poveri sono stati sradicati dalla loro cultura, deprivati delle loro conoscenze. Va restituita loro la possibilità di fare lavori tradizionali, produrre per se stessi". Dall'alto, non si può fare quasi nulla: è questo il concetto che Rahnema imparò da ministro e che guida il suo ragionamento anche oggi. "Obama è un altro buon esempio. Se fossi stato americano, avrei senz'altro votato per lui. Ma credo che non possa fare molto: a quei livelli, quando entri in carica i giochi sono già fatti. La cosa più importante di Obama sono le persone che lo hanno eletto, una per una. Perché con il loro voto hanno manifestato la voglia di cambiare".
di Alessandra Baduel
Fu un africano a farmi capire cosa non andava nelle nostre analisi. Ero in Mali per conto dell'Onu. Gli chiesi come faceva, nei giorni in cui non aveva da mangiare. Mi rispose con tre parole: "Vado dal vicino". Ecco, questo è qualcosa che il Primo mondo rende impossibile". E questo invece è uno dei problemi che pone l'iraniano Majid Rahnema, 85 anni e tante vite alle spalle: ministro dell'Università, della Ricerca e della Scienza (tra il 1967 e il 1971), poi al lavoro con i contadini di Alashtar, nel Lurestan iraniano, prima di girare il mondo per decenni, seguendo i programmi di sviluppo dell'Onu e dell'Unesco. "Lottiamo contro la povertà, o contro i poveri? Li definiamo così per aiutarli, o per sfruttarli meglio?". Le domande di Rahnema mettono in crisi molte ottime intenzioni. Svelano l'ambiguità di un modo di pensare che ci fa sentire più buoni, ma che forse ha un lato meno nobile, dove è di nuovo il Primo mondo a guadagnare - anche con le vite degli altri. Per spiegarsi, fa l'esempio di Mohamed Yunus, l'uomo che ha inventato il microcredito. Soprannominato "il banchiere dei poveri", premiato con il Nobel per la pace, secondo lo studioso iraniano è un perfetto esempio di quell'ambiguità. "L'idea iniziale è buona. In più i poveri sono affidabili: onorano sempre i loro debiti. Ma a ben vedere, si tratta solo di un'ottima operazione bancaria. Perché il microcredito prevede dei tassi d'interesse. E non mi risulta che qualcuno abbia mai contestato a Yunus il fatto che i suoi tassi sono fra il 30 e il 35 per cento. Ha anche fatto un patto con delle compagnie telefoniche, creando un meccanismo terribile: chi ottiene un prestito da lui, se compra un cellulare non paga più gli interessi. Ma intanto s'indebita con le compagnie. Per fortuna l'opposizione di Vandana Shiva gli ha impedito il patto analogo che voleva fare con la Monsanto, produttrice di semi Ogm". È dunque l'economia che crea la miseria? "L'attuale sistema emargina milioni di persone bollandole come povere. Secondo la Banca mondiale, sulla terra ne esistono quattro miliardi. Due milioni e 800 mila sono in povertà "relativa", cioè commisurata al nostro benessere: due dollari al giorno. Un milione e 200 mila vivono con meno di un dollaro al giorno. La chiamiamo povertà "assoluta". Ma sono definizioni e cifre che abbiamo creato noi". Secondo lo studioso iraniano, la scelta delle parole è importante. Molto importante. "In passato, "fare economia" significava gestire al meglio le spese di casa, o di un'attività. Oggi invece l'economia pensa solo a se stessa. E le campagne di "aiuto a chi ha bisogno" sono in realtà campagne contro quelle persone. È tutto calcolato, in modo che i poveri continuino a prendersi solo i nostri avanzi". Pensiero politico, quello di Rahnema? "Lo ammetto senza fatica: ragiono da socialista, da marxista, definiamolo come vogliamo questo pensiero, ma di questo si tratta". Ma ragiona anche da uomo con una cultura religiosa. "Non credo che Dio esista, e intendo il Dio dei poveri, che è diverso dagli altri Dei. Il poeta persiano Rumi (mistico sufi, ndr) raccontò una storia: un pastore sta accudendo il suo montone e intanto parla con Dio. "Tu pensi a tutti", dice, "e nessuno pensa a te. Vorrei tanto farlo io. Pulirti, accudirti, come faccio con il mio montone". Ecco, noi dobbiamo imparare a usare il linguaggio del pastore". Anche a questo ha pensato Rahnema, scrivendo Quando la povertà diventa miseria (Einaudi, 2005). "Miseria è l'impossibilità di avere beni di cui senti la necessità. Mentre in ogni lingua ci sono molte parole per dire "povero", in persiano per esempio sono addirittura ottanta. E ognuna corrisponde a qualcosa di differente". Lui divide più semplicemente la povertà in tre tipi. Quella volontaria dei profeti, quella "conviviale" di chi conduce un'esistenza semplice e dignitosa e quella moderna, creata dalla rivoluzione industriale. "È da allora che esiste un'economia interessata soltanto alle proprie necessità, che inventa dei "bisogni" fini a se stessi. È la società di mercato che ha creato condizioni tali da impedire alle persone di essere povere alla maniera tradizionale, togliendo loro potenza. Ed è questo che ha distrutto la povertà conviviale. Chi pensava, soltanto quindici o vent'anni fa, che tutti dovessero possedere un telefono cellulare? Ora, chi non lo ha sa che deve considerarsi un miserabile. E si parla dei poveri come se fossero dei parassiti. Nella storia degli esseri umani non c'erano mai state così tante persone messe ai margini dalla società". Ritorna l'uomo di cultura, questa volta con un ricordo filosofico: "Se si riesce a vivere secondo la propria potenza, allora ognuno "è" Dio, come dice Spinoza. Il povero deve poter essere fino in fondo se stesso, mentre noi dobbiamo scoprire la ricchezza di ogni individuo, invece di imporre una misura che è di pochi". Come Rahnema stesso spiega nellle pagine del suo ultimo libro, La puissance des pauvres (Actes Sud, 2008), quello stesso potere risiede nella possibilità di agire. Ma parlare di povertà "relativa" fino a non molto tempo fa era un gesto coraggioso: significava far accettare ai governi che se tutti hanno un bene anche non essenziale e qualcuno no, quella persona va aiutata. Ottima intenzione. Lo studioso però la contesta: "Il problema del mondo è che esiste un pugno di persone con molti soldi e che sono interessate soltanto a quelli. Per i poveri il punto centrale non è il denaro. Lo è diventato quando sono stati tolti a forza dal loro contesto". Come cambiare, allora? "Se dai a tutti quattro dollari a testa al giorno, non ci saranno più i quattro miliardi di persone in povertà che calcola la Banca mondiale, ma non avremo risolto nulla. Invece dobbiamo chiederci cosa vogliono realmente quei quattro miliardi di persone". Non si cambia il mondo con i soldi, ma neppure con le rivoluzioni. "Tutti pensano che si debbano trovare soluzioni economiche, ecco perché anche le rivoluzioni, pur con le migliori intenzioni, non hanno funzionato. Sono le persone che devono cambiare, dal basso. Gandhi diceva che il modo migliore di aiutare i poveri sta nel saltare giù dalle loro spalle. E propose la reintroduzione della filatura e della tessitura a mano nei villaggi, perché si potesse lavorare in maniera tradizionale e al tempo stesso fruttuosa. Bisognerebbe fare proprio questo. I poveri sono stati sradicati dalla loro cultura, deprivati delle loro conoscenze. Va restituita loro la possibilità di fare lavori tradizionali, produrre per se stessi". Dall'alto, non si può fare quasi nulla: è questo il concetto che Rahnema imparò da ministro e che guida il suo ragionamento anche oggi. "Obama è un altro buon esempio. Se fossi stato americano, avrei senz'altro votato per lui. Ma credo che non possa fare molto: a quei livelli, quando entri in carica i giochi sono già fatti. La cosa più importante di Obama sono le persone che lo hanno eletto, una per una. Perché con il loro voto hanno manifestato la voglia di cambiare".
1 commento:
La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu
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