Un articolo che riflette su Avatar, nella traduzione apparsa su Internazionale nr.830
Il genocidio di Avatar
George Monbiot, The Guardian, Gran Bretagna
Il film di James Cameron non piace ai conservatori perché è la metafora di un massacro che ci ostiniamo a negare
Avatar, il film campione d’incassi di James Cameron, è profondo e al tempo stesso sciocco. È profondo perché, come molti film sugli alieni, è una metafora del contatto tra culture differenti. E in questo caso la metafora è consapevole e precisa: la storia del rapporto tra gli europei e i popoli indigeni delle Americhe. È estremamente sciocco perché, per garantire un lieto fine, la trama è stupida e prevedibile. Il destino dei nativi americani è molto più vicino alla storia raccontata in un altro film, The Road, dove quel che resta di una popolazione fugge in preda al terrore di fronte a una probabile estinzione. Ma questa è una storia che nessuno vuole sentire, perché mette in discussione il modo in cui vogliamo vederci. L’Europa si arricchì enormemente con i genocidi nelle Americhe e su quei genocidi furono fondate le nazioni di quel continente. È una storia che non possiamo accettare.
Pelle blu, pelle rossa
Nel libro Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo (Bollati Boringhieri), lo studioso statunitense David Stannard documenta i più gravi genocidi che il mondo abbia mai conosciuto. Nel 1492 in America vivevano circa cento milioni di nativi. Alla fine dell’ottocento erano stati quasi tutti sterminati. Molti morirono per le malattie portate dagli europei, ma l’estinzione di
massa fu anche pianificata. Quando gli spagnoli arrivarono in America descrissero un mondo che dificilmente sarebbe potuto essere più diverso dal loro. L’Europa era devastata dalle guerre,
dall’oppressione, dalla schiavitù, dal fanatismo, dalle malattie e dalla fame. Le popolazioni che incontrarono erano in salute, ben nutrite e – con eccezioni come aztechi e inca – pacifiche e democratiche. Oltre che per l’ospitalità dei nativi, i conquistadores si meravigliarono per le strade, i canali, gli edifici e le creazioni artistiche che trovarono. Ma questo non gli impedì di distruggere qualunque cosa e persona incontrassero. La carneficina cominciò con Colombo, che massacrò brutalmente gli indigeni di Hispaniola (l’isola divisa oggi tra Haiti e Repubblica Dominicana). I soldati strappavano i bambini alle mamme e gli fracassavano la testa contro le rocce. Facevano mangiare ai loro cani i bambini vivi. In un’occasione impiccarono tredici indiani in onore di Cristo e i dodici apostoli, su una forca così bassa che le dita dei piedi potevano toccare terra, poi li sventrarono e li bruciarono. Colombo ordinò a tutti i nativi di consegnare una certa quantità d’oro ogni tre mesi. A chi mancava una consegna, faceva tagliare le mani. Nel 1535 la popolazione nativa di Hispaniola era crollata da otto milioni a zero: in parte come risultato delle malattie, in parte per le carneficine, l’eccessivo lavoro e la fame. I conquistadores diffusero questa missione civilizzatrice a tutta l’America Latina. Se non indicavano dove erano nascosti i
loro mitici tesori, gli indigeni venivano frustati, impiccati, annegati, smembrati, dati in pasto ai cani, sepolti vivi o bruciati. I soldati tagliavano i seni delle donne, gli uomini venivano rimandati ai loro villaggi con le mani mozze e il naso appeso al collo. Ma i danni maggiori li fecero la schiavitù e le malattie. Agli spagnoli conveniva ammazzare di lavoro gli indigeni e sostituirli, più che mantenerli vivi: l’aspettativa di vita nelle miniere e nelle piantagioni era dai tre ai quattro mesi. Nel giro di un secolo fu annientato circa il 95 per cento delle popolazioni dell’America centrale e meridionale. In California, nel settecento, lo sterminio era sistematico. Il francescano Junipero
Serra allestì una serie di missioni: in realtà erano campi di concentramento che usavano la manodopera degli schiavi. I nativi erano costretti a lavorare nei campi mangiando solo un quinto di quello che in seguito ebbero gli schiavi afroamericani nell’ottocento. Morivano di fatica, fame e
malattie a ritmi incredibili, ed erano continuamente sostituiti, annientando così le popolazioni indigene. Junipero Serra, l’Eichmann della California, fu beatificato dal Vaticano nel 1988. Adesso basterà un altro miracolo perché sia nominato santo.
Gli spagnoli erano guidati dalla brama per l’oro. Mentre i britannici che colonizzarono il Nordamerica volevano la terra. Nel New England circondavano i villaggi dei nativi e li uccidevano nel sonno. Poi il genocidio si difuse a ovest con il consenso delle più alte autorità. George Washington ordinò la distruzione totale delle case e delle terre degli irochesi. Thomas Jefferson
dichiarò che le guerre contro gli indigeni dovevano continuare finché ogni tribù non fosse stata “sterminata o cacciata oltre il Mississippi”. Durante il massacro di Sand Creek, nel 1864, in Colorado, i soldati uccisero delle persone disarmate riunite sotto una bandiera di pace, compresi i bambini, mutilando tutti i cadaveri e conservando i genitali delle vittime come borse per il tabacco. Theodore Roosevelt definì l’episodio “un atto giusto e utile come ogni cosa avvenuta alla frontiera”.
Un western revisionista
Ma i peggiori genocidi della storia difficilmente turbano la nostra coscienza collettiva. Se i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, l’Olocausto sarebbe stato negato, giustificato o minimizzato allo stesso modo. I cittadini delle nazioni coinvolte – Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti e altri – non accetteranno mai il paragone, ma le soluzioni finali imposte in America hanno
avuto più successo di quelle adottate dal terzo Reich. Quelli che le commissionarono o approvarono, restano eroi nazionali o religiosi. Chi cerca di chiarire i fatti è ignorato o condannato. Ecco perché la destra odia Avatar. Sul neocon Weekly Standard, John Podhoretz si lamenta che il film sembra un “western revisionista” in cui “gli indiani sono diventati i buoni e gli americani i cattivi”. Secondo Podhoretz, Avatar chiede al pubblico di “tifare per un’insurrezione contro dei soldati americani”. Insurrezione è una parola interessante per descrivere il tentativo di opporsi a un’invasione: insorto, o selvaggio, viene definito chi ha qualcosa di cui tu vuoi impadronirti. Per L’Osservatore Romano, invece, “tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile”. Ma la destra, almeno, sa cosa sta attaccando. Sul New York Times il critico progressista Adam Cohen elogia Avatar perché sostiene il bisogno di guardare le cose con
chiarezza. Il film, secondo Cohen, rivela “un principio ben noto del totalitarismo e del genocidio: che è più facile opprimere quelli che non vediamo”. Ma con una meravigliosa ironia inconsapevole, Cohen ignora la metafora più ovvia e parla invece della luce che il film getta sulle atrocità naziste e sovietiche. Siamo diventati tutti esperti nell’arte di non vedere.
Sono d’accordo con chi dice che Avatar è grossolano, melenso e stereotipato. Ma racconta una verità più importante – e più pericolosa – di quelle contenute in migliaia di film impegnati.
Ma i peggiori genocidi della storia difficilmente turbano la nostra coscienza collettiva. Se i nazisti avessero vinto la seconda guerra mondiale, l’Olocausto sarebbe stato negato, giustificato o minimizzato allo stesso modo. I cittadini delle nazioni coinvolte – Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti e altri – non accetteranno mai il paragone, ma le soluzioni finali imposte in America hanno
avuto più successo di quelle adottate dal terzo Reich. Quelli che le commissionarono o approvarono, restano eroi nazionali o religiosi. Chi cerca di chiarire i fatti è ignorato o condannato. Ecco perché la destra odia Avatar. Sul neocon Weekly Standard, John Podhoretz si lamenta che il film sembra un “western revisionista” in cui “gli indiani sono diventati i buoni e gli americani i cattivi”. Secondo Podhoretz, Avatar chiede al pubblico di “tifare per un’insurrezione contro dei soldati americani”. Insurrezione è una parola interessante per descrivere il tentativo di opporsi a un’invasione: insorto, o selvaggio, viene definito chi ha qualcosa di cui tu vuoi impadronirti. Per L’Osservatore Romano, invece, “tutto si riduce a una parabola antimperialista e antimilitarista facile facile”. Ma la destra, almeno, sa cosa sta attaccando. Sul New York Times il critico progressista Adam Cohen elogia Avatar perché sostiene il bisogno di guardare le cose con
chiarezza. Il film, secondo Cohen, rivela “un principio ben noto del totalitarismo e del genocidio: che è più facile opprimere quelli che non vediamo”. Ma con una meravigliosa ironia inconsapevole, Cohen ignora la metafora più ovvia e parla invece della luce che il film getta sulle atrocità naziste e sovietiche. Siamo diventati tutti esperti nell’arte di non vedere.
Sono d’accordo con chi dice che Avatar è grossolano, melenso e stereotipato. Ma racconta una verità più importante – e più pericolosa – di quelle contenute in migliaia di film impegnati.
1 commento:
Bell'articolo...d'altronde si trova su Internazionale!!
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