Un lungo articolo su chi, per scelta o per forza, decide di vivere lontano dal proprio paese natale.
E' lungo, ma interessante. Da Internazionale nr. 829
Una vita da stranieri
The Economist, Gran Bretagna
Sono sempre di più le persone che decidono di vivere lontano dal loro paese.
Sperimentando l’entusiasmo di un nuovo inizio e un’incurabile malinconia.
Per la prima volta nella storia, essere stranieri è diventata una condizione del tutto normale in ogni parte del mondo. È come essere alti o mancini. Nessuno si stupisce più di vedere un francese a Berlino, uno zimbabwese a Londra, un russo a Parigi o un cinese a New York. Per molte persone il desiderio e la possibilità di vivere in luoghi diversi dal loro paese natale hanno reso obsoleto un antico assunto della politica e della filosofia secondo cui l’essere umano si trova meglio a casa propria. È vero, i filosofi raramente hanno avuto fortuna all’estero: Kant trascorse tutta la vita nella cittadina di Königsberg, Cartesio andò in Svezia e morì di polmonite. Ma questa non è una buona ragione per estendere lo spirito conservatore dei filosofi a tutta l’umanità. L’errore della filosofia è stato quello di dare per scontato che l’uomo, in quanto animale sociale, dovesse per forza far parte di una determinata società. Il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder, uno dei padri del nazionalismo moderno, sosteneva che gli uomini potevano realizzarsi solo vivendo insieme a persone della stessa lingua e della stessa cultura. “Ogni nazionalità porta in se stessa la sua propria intima felicità, come ogni sfera il proprio centro di gravità”, ha scritto Herder. Perfino un liberale contemporaneo come Isaiah Berlin si lasciò sedurre da questa logica emotiva. “Ognuno ha il diritto di vivere in una società in cui non deve preoccuparsi di come appare agli altri e non deve esserne così psicologicamente condizionato da sentirsi costretto ad agire in malafede”, disse Berlin nel 1992, poco prima di morire, spiegando le ragioni della sua adesione al sionismo. Molte persone vivono meglio a casa propria. Ma altre, che si sentono oppresse nel loro paese, preferiscono vivere all’estero. Gli emigrati fanno una scelta che sta diventando per un verso sempre più facile e, al tempo stesso, sempre più difficile da realizzare. Più facile perché la globalizzazione abbatte i confini nazionali, più difficile perché in questo mondo globalizzato i luoghi dove è possibile sentirsi completamente stranieri sono sempre di meno. Negli Stati Uniti è così già da molto tempo: nessuno può essere straniero perché tutti sono stranieri. Nelle capitali europee sta succedendo la stessa cosa. Bruxelles è il simbolo di questa situazione paradossale: alla storica rivalità tra francofoni e fiamminghi, che già rende le due comunità straniere l’una rispetto all’altra, si sono sommati decenni di migrazione economica e poi l’afflusso dei funzionari dell’Unione europea.
Ospiti insolenti
Per avere un’idea più precisa di cosa significhi essere stranieri, bisogna andare in Africa, in Medio Oriente o in alcune zone dell’Asia. Nel 2008 in Corea del Sud il 42 per cento degli abitanti ha dichiarato di non aver mai parlato con uno straniero. Ma è meglio che si preparino. Negli ultimi sette anni il numero di residenti stranieri (1,2 milioni) è raddoppiato, superando il 2 per cento della popolazione. E la percentuale potrebbe aumentare ancora visto che nel mondo industrializzato la media dei nati all’estero da genitori stranieri è più dell’8 per cento.
L’aspetto più gratificante dell’essere stranieri – sentirsi smarriti senza sentirsi respinti – è ancora oggi una prerogativa dei viaggi in Giappone. Agli occhi dei visitatori il Giappone sembra una specie di Disneyland in cui ognuno ha un suo ruolo ben definito, compreso lo straniero che ha il compito di essere straniero. Tutto contribuisce a facilitare questo gioco di ruoli, a cominciare dalla gigantesca barriera della lingua. I giapponesi sono convinti che la loro lingua sia talmente difficile da considerare insolente lo straniero che voglia impararla. La religione e la morale del paese sono ben lontane dal dogmatismo cristiano, ebraico o islamico. I timori che il Giappone possa subire l’influenza dell’occidente sul piano culturale e su quello economico si sono placati grazie all’influenza crescente della Cina. Se mai, il Giappone diventerà ancora più asiatico.
Anche qui, comunque, gli stranieri hanno smesso di essere oggetto di venerazione, studio e consumo. Nell’antichità e nel medioevo per essere considerati veramente stranieri bisognava andare a vivere in mezzo a popoli di un’altra religione o con il colore della pelle diverso. Questi popoli, di solito, vivevano a distanze incolmabili e potevano anche uccidere i visitatori. E se ci si allontanava troppo si rischiava di cadere dal bordo della Terra.
Nella sua ultima opera intitolata Le leggi Platone ha descritto il codice giuridico di una città utopica chiamata Magnesia. Secondo questo codice gli stranieri si dividono in due grandi categorie. Ci sono “gli stranieri residenti” che sono autorizzati a stabilirsi per un periodo non più lungo di vent’anni e svolgono i mestieri considerati indegni dai magnesiani, come il commercio al dettaglio. Poi ci sono i “visitatori temporanei”: ambasciatori, mercanti, turisti e filosofi. Se in questa categoria includiamo anche gli studiosi, abbiamo una tassonomia del viaggiatore valida fino ai giorni nostri. La condizione di straniero diventò molto più netta a partire dal diciassettesimo secolo, quando l’Europa cominciò ad adottare un sistema politico basato sugli statinazione. Ogni stato era sovrano, aveva i suoi confini e i suoi cittadini. Per diventare ufficialmente stranieri bastava visitare un paese vicino, un’impresa diventata alla portata di tutti grazie allo sviluppo dei trasporti. All’inizio del ventesimo secolo la maggior parte del mondo era divisa in stati. Cominciò l’era dello straniero raffinato. I benestanti, gli artisti, gli annoiati, gli avventurosi si trasferivano all’estero. E ci andavano anche le grandi masse: con gli imperi, le navi a vapore e le ferrovie viaggiare era diventato più economico e più facile.
Le regole di Hemingway
La condizione di straniero era un mezzo di evasione fisica, psicologica e morale. Andare in un altro paese consentiva di liberarsi dai condizionamenti imposti dalla famiglia, dal lavoro, dalla classe, dall’accento, dalla politica. Dava la possibilità di reinventare se stessi, magari anche solo nella propria testa. Non si era più limitati dalle convenzioni del proprio paese di nascita a meno di non volerlo. Non si votava alle elezioni e i problemi del governo riguardavano solo il governo. Si diventava irresponsabili. Agli occhi dei moralisti l’irresponsabilità potrà sembrare una condizione insoddisfacente per un uomo adulto, ma per molti è un sollievo. Gli scrittori, in particolare, apprezzavano la vita in esilio. Le tonalità emotive dell’esilio – sradicamento, ansia, disorientamento, malinconia – hanno determinato la sensibilità letteraria moderna. Uno scrittore che viveva all’estero poteva sbarazzarsi di tutte le costrizioni provenienti dal suo paese e dalla sua cultura. Smetteva di essere un autore inglese, irlandese, o russo, ed era semplicemente un autore: pensiamo a James Joyce, Christopher Isherwood, Vladimir Nabokov, Samuel Beckett, Josip Brodskij. Catalogare uno scrittore in base al paese di origine era ed è considerato sbagliato. Tutti desiderano essere scrittori del mondo. E il mondo premia questa aspirazione: cinque degli ultimi dieci vincitori del premio Nobel per la letteratura (V.S. Naipaul, Gao Xingjian, J.M. Coetzee, Doris Lessing ed Herta Müller) sono stati degli emigrati.
Un altro premio Nobel, Ernest Hemingway, fissò le regole fondamentali per lo scrittore che vive all’estero quando entrò a far parte della comunità di espatriati della Parigi degli anni venti: vivere nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés (o in un posto equivalente), scrivere nei café, frequentare altri artisti, bere molto. Non tutti possono fare come Hemingway. Molti stranieri oggi sono studenti squattrinati, manager oberati di lavoro, mariti o mogli al seguito del coniuge. Un maschio emigrato a Bangkok è molto più libero di una donna straniera a Gedda. La sorte di chi è costretto a emigrare è ancora peggiore. È difficile che una vita da straniero imposta dalla povertà o dalle persecuzioni possa essere gratificante.
Colori e novità
Eppure, essere straniero è di per sé una situazione stimolante. Come una buona partita di bridge, vivere all’estero impegna costantemente il cervello senza affaticarlo. John Lechte, un professore australiano di sociologia, descrive la condizione dello straniero come “una fuga dalla noia e dalla banalità del quotidiano”. L’ordinario diventa straordinario e viene vissuto “con un’intensità che evoca gli eventi di una vera esperienza biografica”. La psicologa infantile americana Alison Gopnik, per spiegare come vive il mondo un bambino, lo paragonava alla prima esperienza di un americano adulto a Parigi: una parata di novità, colori, eccitazione. Rovesciando l’analogia di Gopnik possiamo dire che vivere in un paese straniero evoca le emozioni dell’infanzia: sorpresa, ansia, sollievo, impotenza, frustrazione, irresponsabilità. Questa sensazione di tornare bambini aggiunge al piacere di sentirsi stranieri una punta di imbarazzo. Anche il narcisismo fa la sua parte: quando siamo all’estero tendiamo a immaginare che amici e nemici rimasti a casa sentano la nostra mancanza. Alla base di tutto c’è il senso di colpa nato dal tradimento: diventare stranieri è un atto di sfiducia nei confronti del paese natale. Quest’idea del tradimento oggi crea meno problemi. Fino a un secolo fa per un gentiluomo inglese ammettere di voler vivere in un posto diverso dall’Inghilterra era un segno di anormalità. Il miglior argomento in difesa dell’espatrio era che permetteva di apprezzare di più i pregi di casa propria. “Che mai conoscerà dell’Inghilterra, chi solo l’Inghilterra conosce?”, scriveva Kipling. Conoscere gli altri paesi è istruttivo. È come studiare antropologia. Qualsiasi straniero dotato di un minimo di curiosità diventa un antropologo dilettante, meravigliato e divertito dalle abitudini sociali del suo paese d’adozione. Nel 1946 George Mikes, un ungherese che viveva a Londra, scrisse un libro su questo
tema intitolato How to be an alien (Come essere uno straniero). In realtà il libro non parlava di come essere stranieri, ma della società inglese vista da uno straniero. Era molto divertente. Mikes notava giustamente che quasi tutti i codici sociali avevano qualcosa di arbitrario e assurdo. Se si riusciva a osservarli dal di fuori, come faceva uno straniero, la vita diventava una commedia ininita. Mikes scrisse anche di aspettarsi la reazione indignata dei suoi amici inglesi per il modo beffardo in cui aveva rappresentato il loro paese. Invece il libro ebbe successo. Mikes si era preso gioco di una cultura abbastanza sicura di sé da saper ridere dei suoi difetti. Ma non sempre le cose vanno così lisce. Gli stranieri, in effetti, si lamentano più del dovuto, e questo ai locali non piace. Se oggi qualcuno scrivesse un libro intitolato “Come essere straniero” e pensasse di farne un vero manuale d’istruzioni da usare in tutto il mondo, potrebbe limitarsi a tre semplici regole.
Pagare le tasse, parlare un po’ d’inglese ed essere gentili nei confronti del paese ospitante.
Esageratamente gentili, evitando anche le critiche più innocue. Quando si va in casa d’altri non si spostano i mobili. Forse gli stranieri sono difficili per natura da accontentare. In fondo, uno straniero è uno che non ama il suo paese abbastanza da restarci. L’espatriato che si lamenta è una contraddizione logica: critica il paese dove si trova, ma è lì per scelta. Perché non torna a casa? In realtà lo straniero pensa a sé come a un esule spirituale, perché qualcosa dentro di lui l’ha spinto lontano dal suo paese. E diventa perfino geloso del vero esule. La vita all’estero è avventura, ma quanto più grande sarebbe l’avventura, e quanto più intensa sarebbe la sensazione di estraneità, se non ci fosse neanche la possibilità del ritorno? Per il vero esule, essere straniero non è un’avventura, ma una prova di resistenza. Il poeta romano Ovidio, confinato in un angolo freddo e umido dell’impero, diceva che l’esilio lo stava rovinando “come da scabra ruggine è distrutto negletto ferro/ e come di tignuole dai denti un chiuso libro è mal ridotto”. Edward Said, l’intellettuale palestinese-americano nato a Gerusalemme e vissuto a lungo negli Stati Uniti, colse il romanticismo e il dolore dell’esilio definendolo “qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi”. Il vero esule, diceva Said, è colui che non può tornare a casa né con lo spirito né con il corpo. Le sue azioni sono intrinsecamente affette dalla perdita di qualcosa che si è lasciato alle spalle per sempre.
Chi è straniero per scelta si trova esattamente nella posizione inversa. La sua capacità di godere la vita si intensifica con la lontananza da casa. E a casa può tornare in qualsiasi momento.
Con il passare del tempo, agli emigrati di lunga data succede di sentirsi come gli esuli veri e non ne sono contenti. Il paese che si sono lasciati alle spalle cambia. Cambiano la cultura e la politica. I loro vecchi amici muoiono o li dimenticano. Cominciano a sentirsi stranieri anche quando tornano a casa solo di passaggio. Jhumpa Lahiri, una scrittrice indiana nata in Inghilterra e residente negli Stati Uniti, coglie un aspetto di questo fenomeno nel suo romanzo L’omonimo. Ashima, un’emigrata indiana, descrive la condizione dello straniero come “una parentesi aperta in quella che era stata la vita normale, solo per scoprire che la vita precedente si è dissolta, sostituita da qualcosa di più complicato e impegnativo”. Attenzione allora: dovunque si vada e per quanto ci si diverta a essere stranieri, c’è sempre un prezzo da pagare. Da qualche parte si annida la nostalgia che si cristallizza nel tempo e diventa incurabile. E la nostalgia ha molto in comune con l’idea freudiana della malinconia, un sentimento continuo e debilitante della perdita, misto al risentimento nei confronti della cosa perduta. Non è la possibilità di tornare a casa che alimenta la nostalgia, ma l’impossibilità di farlo. L’intellettuale bulgara Julia Kristeva, che ha vissuto a lungo in Francia, ha colto questo senso di privazione paragonando l’esperienza dell’estraneità al lutto per la perdita della madre. Nella vita non si può avere tutto. Scegliere una cosa vuol dire rinunciare ad altre. Il dilemma è decidere tra appartenenza e libertà. Lo straniero sceglie i piaceri della libertà. E le sofferenze che l’accompagnano.
2 commenti:
Interessante. Per ora la parte "malinconia e nostalgia" non si è ancora fatta sentire.
Forse quando hanno spiegato la sezione "appartenenza" io non c'ero... o più probabilmente mi facevo i cazzi miei e non ascoltavo.
Il centro del discorso è però forse più semplice: dobbiamo metterci in testa che il nascere in un paese piuttosto che in un altro è solo una questione di fortuna. Una persona che ha trovato un suo seppur traballante equilibrio starà bene nel suo paese d'origine come in un altro. Il problema non è dove nasci, ma come ti rapporti col mondo.
daccordo con dria.
un'altro problema può essere - la paura del diverso-
penso che l'italiano da sempre sia vittima di questa paura,che negli ultimi anni si è trasformata in capacità di oscurare i propri limiti ,guardando solo i difetti degli altri.
da nord a sud,siamo tutti eccessivamente PRIVINCIALI,legati a doppio filo alle nostre tradizioni,modi di fare,e convinzioni che spesso finiscono nel ridicolo.
il confronto con gli altri è meraviglioso,perchè ti apre delle porte che ti permettono di uscire dalla nostra sciagurata routine.
punkow
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