Feist + Jesse Harris + The Jessica Fletchers, 23/4/05, Rimini, Velvet
Eppure pensavo che chiunque avesse ascoltato ''Let it Die'' di Leslie Feist sarebbe stato fortissimamente incuriosito di vedere questa ragazza dal vivo, sentire come avrebbe inserito in un concerto tutte le influenze che si evincono dal disco. Evidentemente l'hanno ascoltato in pochi, o mi sbagliavo di brutto. Entro dentro al Velvet che i Jessica Fletchers stanno terminando il loro set. Nonostante non sembrino niente di particolare, uno degli ormai innumerevoli gruppi che fanno nu rock'n'roll, virato a modo loro, il colpo d'occhio e' di una tristezza disarmante: poche decine di persone nella sala troppo grande, nessuno che si avvicina alle transenne sottostanti il palco. Come dice l'amico Antonio, un po' come a scuola, tutti negli ultimi banchi, oppure la sensazione che se ti avvicini alle transenne, i componenti della band ti domandino "che cazzo vuoi".
Sale poi sul palco Jesse Harris con la sua chitarrina, bravino, bella voce, un Paul Simon dei nostri tempi, si sa che a Feist piacciono queste cose (e' presente nei cori di un paio di pezzi dell'ultimo Kings of Convenience, come dire, i nuovi Simon & Garfunkel). Se la cava discretamente con l'italiano, del resto, come ammette lui stesso, l'ha studiato all'università. Strappa qualche risata, oltre agli applausi, il che trasforma la sala vuota in una specie di cabaret di infimo livello.
Quando la canadesina, ex Broken Social Scene, sale sul palco con la sua band (un tastierista, un batterista, un trombettista che si diletta anche con percussioni di vario tipo e strumenti giocattolo), il centinaio di persone abbondante presenti al momento si riversa sotto il palco discretamente, mantenendo distanze inusuali per le abitudini italiane, quasi che inconsciamente ci sia voglia di dare un diverso colpo d'occhio e non deludere la ragazza. Sappiamo che la sera precedente non si è esibita a Roncade, vediamo se sta bene questa sera. Attacca con la ''percussionistica'' When I Was A Young Girl, e già crea atmosfera. La voce c'è, ed è come me l'aspettavo, calda, virtuosa senza andare sopra le righe, ma soprattutto incasellabile. Lei è piccolina, suona le prime canzoni col cappuccio della felpa tirato sulla testa come una madonna laica, felpa che porta su un vestito che non riuscireste a far indossare ad un'italiana neppure sotto tortura, ma sempre meglio delle improponibili calze che sembrano di lana. Non abbiamo a che fare con una fashion victim, ed è già un punto a suo favore. Guida la band con discrezione, suona il suo chitarrone senza virtuosismi, a volte approssimativamente, ma in una maniera talmente rock che gli attriti già preesistenti nella sua musica, raggiungono livelli difficilmente riscontrabili altrove. C'è del jazz, del pop dal sapore antico, c'è del cantautorato di buona fattura, quasi francese verrebbe da dire, c'è del low-fi soprattutto in queste versioni live, ma soprattutto c'è una voce splendida senza essere mai invadente. E' soave e simpatica a suo modo, e quando ne ha voglia racconta la genesi dei suoi pezzi. Parla di uno strano hotel introducendo la soffice Leisure Suite, così come verso la fine del set parla di un rapporto tormentato presentando la title-track del suo unico cd (all'epoca della recensione, n.d.Jumbolo) Let it Die. Suona diversi pezzi a me sconosciuti, fa salire sul palco per un brano Jesse Harris, la band la lascia sola in alcuni frangenti, durante uno dei quali ''litiga'' con i loop della chitarra e della voce, ma si fa perdonare subito dal pubblico con la sua aria da cappuccino al bar. Torna un paio di volte in fondo al concerto, davvero sorpresa dall'approvazione dei pochi presenti, e suona alla fine oltre un'ora con un solo disco alle spalle. C'è molto di peggio non trovate? Saluta dimessa e ringrazia. Ci lascia un buon sapore in bocca, che tra l'altro non si distingue bene. Non è cappuccino al bar. E' indefinibile, come la sua musica.
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