Gorbaciof - di Stefano Incerti (2010)
Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)
Giudizio vernacolare: un omo di po'e parole
Napoli. Marino Pacileo è detto Gorbaciof a causa della voglia che ha sulla fronte. Fa il cassiere contabile a Poggioreale: riscuote i soldi che i familiari portano ai detenuti. Taciturno fino all'inverosimile, rinchiuso in se stesso e in una vita monotona fino ad essere robotica, sembra avere un unica cosa che somiglia vagamente ad uno svago, che in realtà è un vizio: il gioco. Praticamente ogni sera, sottrae soldi dalla cassaforte del carcere, cassaforte di cui detiene la chiave, per recarsi nel retro di un ristorante cinese dove si gioca a poker con puntate alte. Tiene certosinamente il conto dei soldi che deve restituire, non è un ladro. Il boss della bisca è un noto avvocato napoletano. In carcere, invece, Vanacore, il capo delle guardie carcerarie, sa che Gorbaciof fa i giochetti con i soldi.
La figlia del padrone del ristorante è Lila, una ragazza splendida che non sa una parola d'italiano. Gorbaciof pare insensibile al suo fascino, mentre lei lo osserva incuriosita. Quando però si accorge che il padre è in debito con l'avvocato, e sta per "vendersi" Lila, cerca di intervenire.
Capisco che molti non abbiano apprezzato questa pellicola, ma per come la vedo io Gorbaciof è il film italiano del 2010. Incerti si dimostra maturato rispetto a "confezioni" classiche del suo passato anche vicino (Complici del silenzio), e mette in scena un lavoro, scritto a quattro mani con Diego De Silva e rifinito per sottrazione (soprattutto dei dialoghi) nel corso degli anni (pare ci lavorasse da circa sei), con un risultato che risulta molto vicino a un certo tipo di cinema orientale (penso allo Tsai Ming-liang di The Hole o al Wong Kar-Wai di Hong Kong Express), ma immerso nella realtà napoletana. E' questo mix che risulta vincente e determinante. Scegliendo poi un protagonista come l'immenso Toni Servillo (naturalmente, Gorbaciof), e mettendogli "accanto" una splendida Mi Yang (Lila), insieme ad una manciata di caratteristi usati con dovizia (Geppy Gleijeses - l'avvocato -, Gaetano Bruno - l'arabo -, Nello Mascia - Vanacore -), riesce a creare una storia talmente semplice che avvince, nonostante lo spettatore accorto sappia già come andrà a finire.
La macchina da presa si muove soprattutto seguendo il protagonista, la fotografia rende l'immagine di una certa Napoli (e, pur raccontando una storia, il regista non dimentica di sottolineare che la criminalità è diffusa anche senza "scomodare" quella organizzata), e i due protagonisti recitano uno col corpo (Servillo), l'altra con gli occhi (Yang). Il "dialogo" allo zoo è un momento di grande cinema: poesia e teatro dell'assurdo. Servillo e Incerti creano un personaggio indimenticabile, perchè se Servillo ci mette la faccia, le smorfie e il corpo, il regista, insieme alla costumista, disegnano un "guappo" miserabile che non si rassegna pur accorgendosi che sta affogando, e vive fuori dal tempo. Le musiche del sempre validissimo Teho Teardo sono corrette e interessanti, il finale omaggiante Tarantino non mi pare così vergognoso, come da più parti viene sottolineato: il film doveva finire così, non c'era un'altra soluzione, tanto vale rendere omaggio ad un cinema totalmente diverso da quello che si respira per tutta la pellicola, un cinema ugualmente valido ed influente su chi ama la settima arte.
Non perdetevelo. E non date retta ai critici italiani che, evidentemente, non hanno compreso che siamo davanti ad un ennesimo regista bravo, che ha fatto il salto di qualità, speriamo definitivo.
Nessun commento:
Posta un commento