Il tempo che ci rimane - di Elia Suleiman (2010)
Giudizio sintetico: da vedere (4/5)
Giudizio vernacolare: risate a denti stretti eh
La storia, probabilmente in larga parte autobiografica, del regista e di suo padre, Fuad Suleiman, giovane palestinese di Nazareth che nel 1948 subisce l'occupazione israeliana, e della sua famiglia, che decide di rimanere nella propria città natale, a differenza di molti compatrioti che espatriarono, molti in Giordania, e vennero inglobati nella società israeliana sotto la voce di "arabi israeliani", anche detti "minoranza araba".
Vedere un film di Suleiman è un'esperienza straordinaria, e la cosa che ti viene immediatamente da desiderare è che ne faccia velocemente un altro. Dico questo, nonostante mi renda conto che i suoi film non siano esattamente semplici, scorrevoli, facilmente inquadrabili. A sette anni (otto, se si guardano le uscite italiane) dal precedente e bellissimo Intervento divino, il regista di Nazareth ci racconta, attraverso la storia della sua famiglia, cosa significa non avere una patria (come dice lui stesso nel suo documentario The Arab Dream "Non ho una patria per poter dire che vivo in esilio...vivo in postmortem: vita quotidiana, morte quotidiana"), vivere un'occupazione che dura ormai da 62 anni. E ce lo racconta con il suo stile, surreale, fatto di pochissimi dialoghi (il suo personaggio non dice una parola che sia una in tutto il film, nonostante sia presente in tre dei quattro blocchi che lo costituiscono), spesso apparentemente assurdi, e da episodi assolutamente metaforici che intervallano strampalati accadimenti, accadimenti però molto vicini alla realtà di quei luoghi. Nonostante quel che si possa pensare, si ride molto, ma quasi subito ci si accorge che le gag sono lo sberleffo verso un potere esercitato in una maniera illogica, ed insieme la maniera di esorcizzare una situazione ancora più contraddittoria ed incredibile.
Inquadrature fisse ma larghissimo uso di campi e controcampi, stacchi in nero, nessuna voce fuori campo e nessun uso di didascalie per spiegare dove siamo, in quale anno: solo un attento e dosato uso dei dialoghi e dei particolari basta e avanza.
Straordinario Saleh Bakri nei panni di Fuad (lo abbiamo visto nell'altrettanto straordinario La banda, occhi bellissimi e viso tagliente, qui mi ha ricordato Charlton Eston), bravo il regista nei panni di se stesso (molti critici lo avvicinano a Jacques Tati, io - come altri - a Buster Keaton), e bravo anche Ayman Espanioli che intepreta perfettamente Elia da teenager, allucinato come un gufo.
Difficile da descrivere oltre, da non perdere.
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