No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110306

children


All The Invisibile Children – Mehdi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Kátia Lund, Jordan Scott/Ridley Scott, Stefano Veneruso, John Woo (2006)


Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)

Giudizio vernacolare: ganzetto


L’infanzia rubata, come dicono le note di presentazione di questo film diviso in sette episodi, vista da sette registi (in realtà, sono otto; un episodio è co-diretto da Ridley Scott e sua figlia Jordan) più o meno famosi; cominciamo col dire che i proventi saranno devoluti al World Food Program dell’UNICEF, cosa che mi pare importante.


Riassumiamo in breve le sette storie: in “Tanza” vediamo un gruppo di bambini guerriglieri, in un non meglio definito paese africano in guerra, con “Blue Gypsy” vediamo uscire dal riformatorio alcuni ragazzi serbi, “Jesus Children Of America” ci porta nei ghetti di New York e ci mette faccia a faccia con la droga e l’AIDS, “Bilu e Joao” ci mostra la vita dei bambini nella megalopoli di San Paolo, “Jonathan” riporta indietro nel tempo un fotografo di guerra, “Ciro” è uno scugnizzo napoletano alle prese con furti e una famiglia che non c’è, “Song Song & Little Cat” rappresenta lo sguardo di John Woo sulle differenze sociali della Cina odierna.


Tralasciando il nobile intento del film, è inevitabile notare che il risultato è fortemente eterogeneo. Non è mai piacevole stilare delle classifiche, ma in questo caso è divertente confontarsi sui gusti personali, e su come i diversi registi riescono a colpire gli spettatori. Prescindendo dal fatto che, vista la causa, bisognerebbe andare al cinema comunque per vedere questo film, i due episodi che si elevano indiscutibilmente sopra gli altri sono i due centrali, forse casualmente uno dietro l’altro, di Spike Lee e di Katia Lund, e adottano due registri diametralmente opposti. Lee ne adotta uno fortemente drammatico, come quasi mai gli si è visto fare, e ci racconta la storia di Blanca, una bambina nata da una coppia di tossicodipendenti, che vive osservando le stranezze dei genitori, e che scopre di avere l’AIDS grazie alla cattiveria delle compagne di scuola. Nel poco tempo a sua disposizione, Lee colpisce lo spettatore in modo durissimo, assalendolo al cuore e alla gola, lasciandolo senza fiato. Spietato.

La Lund, già co-regista insieme a Meirelles dello splendido “City Of God”, usa toni lievi e divertenti, trucchetti da video-clip, ma soprattutto, una serie interminabile di facce indimenticabili, a partire dai due protagonisti, un bambino e una bambina che bucano lo schermo anche solo camminando o spingendo un carretto. Delizioso.

Per il resto, sorprende Woo, un po’ manieristico e piuttosto pomposo, ma in fondo toccante, col suo episodio fotografato splendidamente, un po’ complicato ma apprezzabile l’onirico lavoro a quattro mani degli Scott, leggermente troppo teatrale ma efficace l’opera di Veneruso, i due episodi forse più deludenti sono quelli iniziali, dove Kusturica gigioneggia troppo con le sue solite esagerazioni gitane, e, se non fosse perché i bambini africani, soprattutto con le armi in mano, ci fanno sempre sentire colpevoli di qualcosa, l’apertura di Charef risulterebbe davvero cervellotica; a sua discolpa c’è però da dire che il doppiaggio lo massacra.

Comunque da vedere per il fine.

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