No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110314

ring of fire


Walk The Line – Quando l’amore brucia l’anima – di James Mangold (2006)


Giudizio sintetico: si può vedere (2,5/5)

Giudizio vernacolare: dé, ma solo per rispetto eh

13 gennaio 1968, Prigione di Folsom, California USA. Dall’esterno, si sente un rumore sordo. Quasi incredibile, all’interno si sta svolgendo un concerto. Sta suonando Johnny Cash e la sua band, e quel concerto rimarrà, inciso su disco, una delle sue migliori prove. Parte da qui la bio-pic di Mangold, che, tramite un lunghissimo flashback che prende il via subito dopo, dall’inquadratura su bicchiere d’acqua e un disco di una sega circolare, ci porta al Cash bambino, in Arkansas, col fratello maggiore ancora vivo, un padre severissimo, una madre amorevole, devota alla chiesa, che lo introduce ai canti spirituali, il resto di una famiglia numerosa. Il servizio militare, il primo amore tormentato che sfocerà in un matrimonio con figli, la nascita dell’ispirazione musicale, proprio ammirando le notizie della donna che, poi, diventerà la sua compagna di vita, oltre che musicale, quella June Carter che lo salverà dall’abisso delle droghe e dell’autodistruzione, la ricerca inconscia di uno stile personalissimo e originale, aiutato da un timbro vocale unico e quasi inimitabile.

Onesta e godibile la cine-biografia di Mangold sull’uomo in nero, girata con bello stile, qualche buona intuizione, e arricchita da un paio di ottime interpretazioni, quelle dei due protagonisti Joaquin Phoenix (Johnny Cash) e Reese Whiterspoon (June Carter), che sono valse i due prestigiosi Golden Globe, oltre a quello per il miglior film, corroborata da una prestazione piccola ma superlativa da parte di Robert Patrick nella parte del padre di Cash, e accompagnata senz’altro da un trasporto emozionale fortissimo, soprattutto da parte degli amanti della musica e del personaggio Cash, cosa che tende a far dimenticare le pecche, anche piuttosto evidenti, della pellicola.
A voler essere pignoli, quel che manca davvero in questo film è un’approfondita analisi della doppia anima di Cash; a pensarci bene, una delle cose che hanno reso unico l’uomo in nero. Riflettiamo: vista così, la vita e la carriera di Johnny Cash non è lontana da quella di centinaia di altre star musicali. Infanzia difficile, vicinanza con mostri sacri, groupies, soldi, sesso e droga, redenzione e successo. Vecchiaia felice.
Ma come dimenticare l’essenza paradossale di Cash? Devoto credente e peccatore incallito, timorato di Dio che scrive versi come “ho sparato ad un uomo a Reno, solo per guardarlo morire”, patriota ma ribelle, vicino all’iconografia dei cowboys ma anche a quella degli indiani americani. Non basta, almeno credo, far pronunciare a Phoenix la battuta, rivolta ai discografici che gli facevano notare il fatto che un disco live registrato in una prigione, ovviamente piena di assassini e stupratori, non sarebbe piaciuto al suo pubblico, fondamentalmente composto da cristiani, “se non gli piace non sono buoni cristiani”. Ci si poteva senz’altro lavorare di più e meglio.
Resta il piacere di vedere sul grande schermo un grande personaggio, o almeno la sua figura rappresentata, che ha lasciato un vuoto difficilmente colmabile.
Le performance dei protagonisti, onestamente un po’ troppo strombazzate, sono rilevanti soprattutto dal punto di vista vocale, dato che le canzoni sono effettivamente cantate da Phoenix e Whiterspoon, mentre dal lato recitativo, forse perché più sorprendente avendoci abituato a ruoli del tutto diversi, la (ex?) bionda Reese risulta più incisiva.
Da vedere per rispetto.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

ma và. è bello.
Mau

exit ha detto...

Anche a me sembri un po' troppo severo. :) A me il film piacque moltissimo.

jumbolo ha detto...

a me non troppo, e quindi ho cercato di motivare il perché. non sempre riesco ad essere severo, magari in questo caso mi è riuscito :)