No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110309

maria


Mary – di Abel Ferrara (2005)


Giudizio sintetico: da vedere (3,5/5)

Giudizio vernacolare: boia, fa venì ir mar di testa


Tony è un regista controverso, pieno di sé, una star bizzosa; ultimato un film incentrato sui vangeli apocrifi, e soprattutto sulla figura di Maria di Magdala, in contrapposizione a Pietro, in quanto vera e propria “discepola”, figura sepolta dalla misoginia della Romana Chiesa, rimane spiazzato ma soprattutto scocciato dall’attrice protagonista (anche se lui si è ritagliato la parte di Gesù), Marie, che in preda ad una crisi mistica, oltre a tardare ad uscire dal personaggio, invece di tornare a New York con lui decide di andare a Gerusalemme e scoprire le radici della religione. Un anno dopo, a montaggio del film ultimato, film che si intitola “Questo è il mio sangue”, Ted, un famoso conduttore televisivo, è alle prese con la gravidanza della moglie, il rapporto con l’amante, e il suo show serale; sta trattando il tema della religione, quando assiste all’anteprima del film in questione, rimanendone affascinato. Invita allo show Tony, che pretende di scambiare la sua apparizione con una diretta in occasione dell’uscita del film nelle sale. Ted vorrebbe anche Marie, che però all’inizio si nega, instillando al tempo stesso in Ted la genesi di un dubbio mistico. La contestazione verso il regista e verso il film, le complicazioni nella gravidanza della moglie, e l’intervento telefonico di Marie in trasmissione scateneranno una crisi.

Gli estimatori di Ferrara, come me, saranno probabilmente felici di constatare che il regista è finalmente tornato a buoni livelli, dopo il passo falso di “New Rose Hotel” (anche se, tra la pessima trasposizione da William Gibson e questo “Mary” c’era stato “Il nostro Natale”, da non sottovalutare). Certo, siamo lontani dal capolavoro cattivo de “Il cattivo tenente”, o quel gioiello di inestimabile valore che fu “The Addiction”, ma si rivedono la forza comunicativa, i tormenti, il tocco cupo, inconfondibile e angosciante del “maledetto” per eccellenza. Un tema ricorrente per Ferrara, quello della religione, un tema che sicuramente lo tormenta e che lo spinge continuamente ad interrogarsi sui valori con la V maiuscola, che insieme alla parte sporca della sua e della nostra coscienza costituiscono il filo conduttore della filmografia di un cineasta che si è sempre esposto e messo a nudo, raccontando le sue storie.

Vagamente autobiografico (Modine interpreta, con maestria, un regista conscio della potenza visionaria e scandalosa delle sue pellicole, infastidito da un baraccone mediatico e sociale che critica a priori senza riflettere su ciò che lui ha faticato per mettere su pellicola, ma anche interessato ai soldi, in fin dei conti), il film ha delle pecche, magari nella costruzione delle psicologie di alcuni dei personaggi principali, o nell’incedere un po’ pachidermico, nonostante la scarsa durata, ma ha anche dei grandi pregi.
Prima di tutto, l’atmosfera cupa e decadente che il regista, con l’aiuto di una fotografia piena di ombre e soprattutto di riprese notturne, riesce a conferire alla parte contemporanea ed americana della storia. Godetevi le riprese di Ted in taxi e di New York di notte ripresa dal basso, mentre adesso vanno invece tanto di moda le riprese dall’alto, a questo proposito, ma anche le scene dentro l’ospedale. Siamo lontani da E.R., vero?
In seconda battuta, il mix di piani temporali delle storie, che si intrecciano tra di loro senza quasi nessun aiuto per lo spettatore, montati abilmente. Ci sono gli spezzoni del film nel film (il metacinema, che solo i più grandi riescono a maneggiare con grazia), che potrebbero anche raccontare una verità davvero ignorata dalla storia, dove la fotografia si fa più nitida anche se carica di enfasi, forse a significare un’epoca di speranza, c’è l’attualità in Terra Santa, seguendo le orme del viaggio mistico di Marie, che alternano fede, preghiera e tragedia vera; ci sono gli svolgimenti del dramma personale del conduttore televisivo e quello meno tragico e più teatrale del regista, in una New York dipinta a tinte fosche, come detto prima, e piena di insidie create dall’uomo stesso contro altri uomini. Ci sono le interviste ai personaggi veri, che però sono dentro al film, ma creano una vertigine documentaristica, ancora una volta dentro al film stesso.
Infine, ci sono le domande che i protagonisti si pongono davanti alla fede e all’evidenza della catastrofe imminente dell’umanità, le stesse che ci poniamo noi non appena qualcosa di più profondo ci fa riflettere. E’ il caso di questo film. Imperfetto, si, ma personale e, a suo modo, generatore di riflessioni profonde. Ecco spiegata la pesantezza del film: ha una densità estrema.
Intense, con registri diversi, le prove di Modine e di Whitaker; un gradino sotto la Binoche.
Un film per chi va al cinema per uscirne destabilizzato, con più interrogativi rispetto a quando è entrato.

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