No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110317

impero inglese


Let England Shake - PJ Harvey (2011)

Capisco. Capisco benissimo le difficoltà ad approcciarsi a questo disco di Polly Jean Harvey, così come a molti altri, poco avvicinabili, non certamente orecchiabili al primo giro; caratteristica quasi fondamentale della musica della 41enne nata a Yeovil e cresciuta nel Dorset.
Dietro alla patina asimmetrica, sghemba, cacofonica, di questo disco completamente ispirato, nelle liriche, da una visione critica sulla Patria e su quanto la grandezza dell'Inghilterra sia dovuta al suo guerrafondaismo, passatemi il neologismo, sempre che abbia capito il senso di quello che Polly ha voluto comunicare, dietro a questo, dicevo, c'è un ennesimo lavoro intenso, profondo, studiato, stratificato, mai banale, e, dopo qualche timido dubbio, anche musicalmente affascinante.
I dubbi li spazza tutti via la traccia numero tre, dal titolo The Glorious Land, tutta attraversata vagamente da un senso di fuori tempo, indotto dal suono di una tromba che chiama l'adunata, ripreso sottilmente dal canto di PJ: un pezzo che, corredato da un testo quasi horror, ma non lontano dalla realtà, rasenta decisamente il capolavoro.
Sono convinto che, anche chi, come me, non ha una profonda preparazione musicale, potrà, con un minimo di sforzo, apprezzare il lavoro fatto dall'artista e dai preziosissimi collaboratori (John Parish, ormai collaboratore fisso, che ha suonato batteria, trombone, xilofono, Mellotron, piano Rhodes, chitarra, percussioni e backing vocals, Mick Harvey, che molti conosceranno per la collaborazione con Nick Cave, piano, armonica, batteria, organo, piano Rhodes, basso, percussioni, chitarra, xilofono e backing vocals, Jean-Marc Butty, anche lui collaboratore storico, batteria e backing vocals), perfino in pezzo ostico come England, dissonante ai massimi livelli in apertura, quasi disturbante.
Registrato in una chiesa (presumo sconsacrata) nel Dorset, frutto di oltre due anni di lavoro, soprattutto sulle liriche, l'album segna l'avvicinamento prepotente di PJ all'autoharp, che i più indulgenti sostengono essere nelle sue grazie da sempre, e che fa da protagonista nella title-track, ed inoltre su The Words That Maketh Murder, All And Everyone, The Colour Of The Earth, e che sembra sarà presente fortemente nei concerti a supporto del disco.
Vi invito a non farvi "spaventare" dall'osticità della patina che citavo in apertura. Magari potete cominciare dai pezzi più "convenzionali", quali Hanging In The Wire, delicata, o Bitter Branches, nello stile ruvido e rock di Polly Jean, e fare attenzione ai passaggi tra i blocchi che compongono i pezzi, così da non ritrovarvi spiazzati davanti all'ascolto di quelli più complessi, come Written On The Forehead o All And Everyone.
Vi assicuro che questo è un disco talmente strutturato, da riuscire a darvi tante soddisfazioni ad ogni nuovo ascolto. Senza alcun dubbio, uno dei dischi del 2011.

4 commenti:

lafolle ha detto...

ho ascoltato un'intervista su radio rai due a moby dick in cui pj spiegava il disco, raccontando fatti e processo creativo e nascita dei pezzi, significato e poesia.
forse si trova il podcast sul sito. lo consiglio.
il disco è bellissimo.

jumbolo ha detto...

attenzione: era dal 2008 che io e lafolle non concordavamo su un disco....

exit ha detto...

Sottoscrivo tutto. Anche per me uno dei migliori del 2011.

Enrico Bartelloni ha detto...

necessito di un secondo ascolto.
Forse anche di un terzo.
;)