No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110315

fiori rotti


Broken Flowers – di Jim Jarmusch (2005)


Giudizio sintetico: delusione (2/5)

Giudizio vernacolare: peccato dé

Don Johnston è benestante, si è arricchito “coi computer”, di mezza età, ci sa fare con le donne, una specie di Don Giovanni, ma non è mai riuscito a mantenere un rapporto per lungo tempo. Vive in provincia, ha una bella casa in un quartiere tranquillo. Ha un vicino afro-americano, Winston, rastafarian convinto, che ha una bellissima famiglia, moglie e cinque figlioletti, e la passione dei gialli; il suo sogno di improvvisarsi detective si materializza improvvisamente il giorno in cui Don riceve una lettera a dir poco scioccante: una sua ex, che naturalmente non si firma, gli rivela di avere avuto, 19 anni prima, un figlio da lui, e aver scoperto di essere incinta poco dopo averlo lasciato. Winston, contando sull’amore paterno che cova sotto l’apparente apatia di Don, gli organizza nei minimi particolari un viaggio attraverso gli States, alla ricerca delle sue ex, nella speranza di scoprire chi, delle sue vecchie fiamme, è l’autrice della lettera. Nel frattempo, la lettera dice anche che il figlio è partito, forse proprio alla ricerca del padre mai conosciuto.
Don, convinto più dal suo dolce ma inconcludente far niente che da Winston, parte in questo viaggio a ritroso nel tempo.

Speravamo in un ennesimo piccolo gioiello sghembo, affascinante, asimmetrico, sconclusionato, pieno di battute folgoranti e situazioni non-sense, arricchito da un cast prezioso e altolocato. Invece ci troviamo di fronte a una delusione piuttosto cocente. Per chi ha amato fin dall’inizio (“Stranger Than Paradise”, “Permanent Vacation”, film dimenticato e difficilmente citato nelle sue filmografie, ma dal valore artistico indiscutibile, ancor prima di “Down By Law-Daunbailò”, “Mystery Train” e via discorrendo) questo cineasta rocker, un po’ Wim Wenders, un po’ Nick Cave, ma con i capelli della cantante dei Roxette, il suo amore per i personaggi borderline e le ambientazioni sporche, fumose, ma talmente affascinanti da accettare anche un film-accozzaglia di corti girati in un arco di oltre 10 anni (l’ottimo “Coffé And Cigarettes”), fa quasi male ritrovarsi, sbigottiti, fin dall’inizio davanti ad un film convenzionale al punto che, addirittura, la sequenza sotto i titoli di testa (il percorso della lettera che comunica a Don di essere padre) pare girata da uno Spielberg qualsiasi. Cioè, uno bravo, molto bravo, ma che ormai fa film per famiglie.
A rendere tutto più complicato, la scelta, che si rivela pessima, di un protagonista, Murray, che pare ingabbiato nel ruolo di “Lost in Translation”, e di una serie di comprimarie di lusso (Stone, Lange) che si limitano ad apparire senza dare nessun valore aggiunto al film, già di per sé molto molto scarno; fa quasi un figurone Frances Conroy, la mamma dei Fisher in “Six Feet Under”, pur interpretando una donna molto simile alla Ruth protagonista del serial di culto; l’episodio che la coinvolge è probabilmente il più riuscito del film, un incontro e una cena imbarazzante, giocata su piani completamente differenti, proprio come spesso accade nella realtà. Nella norma l’apparizione della Sevigny, irriconoscibile e sorprendente Tilda Swinton (è Penny).
Inconcludente senza che lasci l’impressione di aver voluto esserlo, ci dà l’impressione netta che Jarmusch si sia lasciato convincere a girare un qualcosa che non lo rassomiglia per niente, se non per le atmosfere rarefatte, per i tempi dilatati e per la grande colonna sonora (splendida la canzone che è usata in apertura e in chiusura, There Is An End, dei Greenhornes con Holly Golightly); non ci resta altro che augurarci si sia trattato solo di un passo falso isolato. Da lui pretendiamo davvero di più.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

stupendo!!!! stupendo!!
Mau

jumbolo ha detto...

ok Mau