No pain. The world is a wonderful whisper for those who can listen, if necessary in silence.

20110304

one hundred twenty-seven hours


127 ore - di Danny Boyle (2011)

Giudizio sintetico: si può vedere (3/5)
Giudizio vernacolare: così 'mpari a un fidatti di nissuni!

La storia dell'incidente occorso, nel 2003, ad Aron Ralston, a quell'epoca ventottenne, ingegnere meccanico con la passione dell'alpinismo e del trekking estremo, che durante un'escursione nel Canyonlands National Park dello Utah, mentre stava visitando il Blue John Canyon, scivolò verso il fondo, insieme ad un grosso masso, che si incastrò verso il fondo bloccandogli il braccio destro dal gomito verso la mano.
Ralston aveva con sé liquidi e cibo per un fine settimana, corde, una torcia e un coltellino multiuso scadente (un po' il protagonista del film), ma soprattutto non aveva il cellulare (anche se probabilmente, bloccato in quella situazione, non avrebbe avuto segnale). Senza pericolo di spoiler, visto che si tratta di una storia vera e di un film che è stato spinto da una massiccia pubblicità, posso dire che sopravvisse quasi cinque giorni, provando a disincastrarsi, e alla fine si auto-amputò l'arto bloccato.

Danny Boyle, ormai lanciato nell'impresa di "diversificarsi" al massimo, per quanto riguarda i soggetti dei suoi film, insieme al collaboratore Simon Beaufoy, già con lui per The Millionaire, basandosi naturalmente sulla storia di Ralston e sul suo libro Between a Rock and a Hard Place, mette in scena un'operazione che, per alcuni versi, potrebbe ricordare quella di Buried, ma se ne allontana decisamente dando al tutto un piglio solare, e concedendosi dapprima, un ampio preludio, perfino ammiccante, e durante, varie divagazioni oniriche, con la scusa ovvia di una sorta di stato "allucinato" dalla stanchezza e dalla disidratazione del protagonista, glissando poi con sapienza sulla scena dell'amputazione.
La forza del film sta nel binomio che scaturisce tra la regia, già definita adrenalinica da più parti, che utilizza dinamicità e montaggio per dare ritmo al tutto, oltre che a trucchetti tipo lo split-screen, utilizzato già dai titoli di testa, ma pure le telecamere portatili, i flashback e le allucinazioni di cui sopra, e dalla sontuosa prova del già apprezzatissimo James Franco, che mette sullo schermo una versione umana e "pentita" (dall'ego/ismo che, evidentemente, è una delle sue caratteristiche) di Aron Ralston (che vediamo, un po' come succede in The Fighter, sui titoli di coda). Molto bella anche la fotografia, e la colonna sonora, con pochi pezzi, ma eclettici ed azzeccati (Ça plan pour moi di Plastic Bertrand erano secoli che non la sentivo, e nel film arriva come un fulmine a ciel sereno, Festival dei Sigur Ròs in chiusura è perfetta).

Un esperimento ben riuscito.

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